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ARROSTO  IN  CAMBIO  DI  FUMO

Marco Giacinto Pellifroni       

Da ormai oltre un anno stiamo assistendo a movimenti finanziari d’oltre Atlantico che non hanno precedenti nella storia. L’ultimo episodio s’è avuto lunedì scorso con la nazionalizzazione di Freddie e Fannie, due colossi semi-pubblici dei mutui immobiliari: semi-pubblici in quanto garantiti dallo Stato, e perciò “infallibili”. Vediamo di fare una panoramica della situazione americana, per poi raffrontarla con un volo a ritroso verso l’Unione Europea.

Dunque, negli USA le due entità cui è delegato il compito di intervenire per regolare le intemperanze mercatistiche e monetarie sono: il Ministero del Tesoro, con a capo Henry Paulson, e la Federal Reserve (Fed: Banca Centrale), con a capo Ben Bernanke. Il primo ha, o dovrebbe avere, funzioni squisitamente pubbliche; il secondo, funzioni ibride, come vale per qualunque altra banca centrale, a causa del fatto che le banche private sulle quali dovrebbero vigilare sono loro azioniste: sono quindi banche private con funzioni pubbliche. Insomma, un’anima privata con una facciata pubblica.

Il 9 agosto 2007 ha segnato uno spartiacque in campo creditizio, poiché l’esposizione debitoria sia dello Stato che dei privati cittadini ha superato la soglia limite di sopportabilità, con la diffusione interbancaria del panico da insolvenza, conseguente allo scoppio di una bolla bifronte: del credito al consumo e immobiliare, su un lato, e, sull’altro, della finanza strutturata, ossia di quella montagna di titoli, in ragione di circa 10 volte il PIL mondiale, di matrice alchemica e sparsi allegramente per il mondo dalle maggiori banche d’investimento e commerciali.

Come risvegliatisi da un prolungato nirvana, banche e consumatori americani si sono ritrovati di colpo come il cammello con la groppa spezzata dalla proverbiale ultima piuma. A tutti era venuta a mancare la liquidità: titoli di credito credibili, e cioè coperti da ricchezza solida e presente, anziché futura o fantasmagorica. Mentre le banche davano inizio a selvagge procedure di messa in mora e pignoramenti immobiliari, col conseguente crollo del mercato; mentre le società di carte di credito revolving (a rimborsi rateali) tiravano i remi in barca e chiedevano rientri immediati, i cittadini si scoprivano assai più poveri di quanto il credito facile li aveva sino allora illusi di essere. *

A questo punto le istituzioni furono poste di fronte al dilemma amletico: salvare le banche o i contribuenti? Se la Fed aveva ovviamente più a cuore la prima alternativa, il Ministro del Tesoro avrebbe dovuto propendere per la seconda; e, visto che la crisi era stata scatenata dall’alluvione di credito allo scoperto di banche private guidate da folli incompetenti, si sarebbero dovuti punire questi ultimi (che invece sono stati licenziati con premi da capogiro: ai capi di Freddie e Fannie per un totale di $ 23 milioni) e le loro banche, lasciandole impietosamente fallire. Prevalse l’opzione della Fed, e una massa di mutuatari fu gettata sul lastrico, mentre si allungava la lista dei disoccupati e di coloro che rientravano sia in questa categoria che in quella dei senzatetto.

La docile “conversione” del Ministro del Tesoro si spiega col fatto che a tale carica era stato chiamato da un paio d’anni il sunnominato Paulson, ossia l’ex-numero 1 della Goldman Sachs. Questo lascia intuire i suoi sentimenti nei confronti del mondo bancario e il perfetto allineamento con quelli di Bernanke, che non si sa se definire collega di fatto o controparte di facciata.  In ogni caso, l’accordo fu presto trovato: succhiare liquidità a più non posso dal serbatoio pubblico e trasferirla nel mondo posticcio della finanza strutturata, scambiando vagonate di titoli spazzatura contro Buoni del tesoro alla pari e a interessi negativi! Ecco il significato di arrosto in cambio di fumo. 

Tutto ciò per salvare le grandi banche, commerciali o d’affari, too big to fail, lasciando colare a picco quelle minori (ad oggi ne sono fallite 11: poca cosa, su un totale di 7200). Nonostante l’ostinata e congiunta buona volontà del duo Bernanke-Paulson, Bear Sterns, la più fragile delle  grandi banche d’investimento, lo scorso marzo gettava la spugna; e a rilevarla ci pensava, grazie a un prestito di $ 30 miliardi garantiti con fondi pubblici, la JP Morgan Chase. Ora, forse già questo weekend, è il turno di Lehman Brothers; in seguito, forse, di Merrill Lynch, entrambe facenti parte delle un tempo Big Five: le cinque banche d’affari più blasonate del mondo, ridotte oggi a quattro; segue una nutrita lista d’attesa. Quindi, a dispetto dell’astronomico trasferimento di fondi pubblici nel settore bancario privato, a dispetto del ridicolo tasso di sconto del 2% riservato a quest’ultimo (ossia ampiamente negativo, se confrontato ad un’inflazione ufficiale del 6%), anche grosse banche piangono e cadono.

E cadono, con ancora maggior fragore, anche le colossali entità semipubbliche preposte all’erogazione di mutui immobiliari, come Freddie e Fannie, gravate da obbligazioni scoperte per oltre, tenetevi, $ 5,4 trilioni = $ 5.400 miliardi!!! Cosa fa allora l’ineffabile duetto Paulson-Bernanke? Le nazionalizza: carica insomma sul groppone del debito pubblico americano questo ulteriore macigno, portandolo da $ 9,5 a quasi $ 15 trilioni!

Risucchiati tutti questi capitali pubblici nella palude finanziaria privata, di soldi per gli americani ne restano pochini, e a ben più caro prezzo del misero 2% di tasso concesso alle entità too big to fail. I contribuenti si arrangino, l’importante è salvare, magari illusoriamente, il mondo di Wall Street. Notizia curiosa: il dollaro, che, a fronte di simili disastri, dovrebbe galoppare verso zero, ha goduto di un rally inaspettato, salendo ai massimi da un anno.

Ora riattraversiamo l’Atlantico e planiamo nella UE. Qui il quadro è ancor più a favore delle banche, in quanto, a fianco della figura di Trichet, Governatore della BCE e corrispondente a Bernanke, manca quella corrispondente a Paulson, in quanto esiste solo un Commissario (Almunia), ma non un Ministro del Tesoro europeo: una carica rimasta nelle varie nazioni dell’eurozona; sempre, tuttavia, temperata dalla compresenza dei Governatori delle rispettive Banche Centrali nazionali, dotati di poteri minori di un tempo ma comunque sempre notevoli; per giunta il nostro, Mario Draghi, è l’ex-numero uno di Goldman Sachs in Europa. A peggiorare la bilancia dei poteri, mentre la Fed americana è, almeno formalmente, soggetta alle pronunce del Congresso, la BCE è, grazie al Trattato di Maastricht, totalmente schermata da qualsiasi interferenza dei governi e dei rispettivi ministri economici, Commissario incluso, risultando di fatto un centro di potere assoluto e insindacabile, anche giudizialmente. Un immenso potere senza contraddittorio, senza quei checks and balances su cui s’è recentemente intrattenuto il nostro premier. E a conferma sta l’immenso volume di liquidità pompata arbitrariamente da Trichet nel circuito bancario, con le stesse modalità e gli stessi fini del suo collega americano. In sostanza, sia di qua che di là dell’Atlantico, si è creata deflazione fra le gente, sottraendole liquidità per rappezzare i malconci bilanci bancari e dissanguandola con tasse usurarie; mentre i prezzi sono saliti su entrambe le sponde, grazie alla svalutazione di fatto nei confronti delle materie prime d’importazione. Ora i prezzi all’ingrosso di queste ultime sono scesi, grazie alla recessione in atto; ma al dettaglio (vedi benzina, pane, pasta) gli effetti non si fanno sentire. I preannunciati interventi per colpire chi ci specula non ci sono o fanno cilecca, mentre dal suo improprio pulpito la BCE esorta a bloccare i redditi fissi, per non far crescere l’inflazione, cui non questi, ma essa stessa ha contribuito.

E mentre in America c’è chi dipinge questo strano “più Stato meno mercato”, con la benedizione di Wall Street,  come una sterzata verso un inedito “socialismo dei ricchi”, e ci si chiede chi farà in ultima istanza il salvataggio dello Stato americano, in Italia siamo ancora alle prese con le “privatizzazioni”, nell’anacronistica speranza di riportare così a galla  barche zavorrate da decenni di clientelismo politico e sindacale. Sotto questo profilo, mutatis mutandis,  l’Atlantico non è poi così largo.

Ma in entrambi gli ambiti, in definitiva, ciò che conta è salvare gli squali, lasciando che i pesciolini, in vigorosa crescita numerica, se la sbroglino da soli, spennati da stagflazione, tasse e sanzioni: l’equivalente di 7 mesi di lavoro l’anno per mantenere gli squali. Mentre scrivo, non so come finirà la vicenda Alitalia; ma i ripetuti niet delle mille sigle sindacali sono stati e sono un insulto ai pesciolini che nessuno si erge a difendere e anzi si additano come la causa prima del buco fiscale. Mentre i dipendenti degli squali organizzano proteste e bloccano strade e ferrovie pur di mantenere paghe ed assetti aziendali fallimentari, lavoro nero ed elusione sono per i pesciolini l’unico modo di salvarsi da uno Stato vessatore ed evitare il collasso e le rivoluzioni del pane di storico ricorso. Con Alitalia sono emersi due mondi del lavoro in netto antagonismo: uno che si aggrappa a un secolo di conquiste sindacali e sociali; e l’altro allineato alla modernità nel pagare tasse e tributi, ma ancorato ad un remoto passato per quanto riguarda la sua sopravvivenza in un mondo sempre più competitivo e spietato.   

Marco Giacinto Pellifroni                                                    14 settembre 2008

 

* Gustoso inciso: il rev. Jenkins, seguitissimo alla TV americana, invita da tempo i fedeli a portare in Chiesa e bruciare in un falò liberatorio le proprie carte di credito, viste ormai come oggetti di Satana tentatore!