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ALITALIA E PIAGGIO

Marco Giacinto Pellifroni

Le due aziende non hanno in comune soltanto l’attività in campo aeronautico, bensì anche l’approccio pubblico/privato secondo la ben collaudata formula del Grande Vecchio del “salotto buono” della finanza italiana: Enrico Cuccia, propugnatore della privatizzazione degli utili e della socializzazione delle perdite. Per questo era tanto venerato dalla razza padrona dell’epoca. 

 Un sistema che s’è dichiarato sino a ieri liberista e fiero di esserlo si dispone con la massima naturalezza a dividere in due Alitalia, lasciando la parte sana alla cordata di imprenditori italiani e la bad company (notare il termine inglese per attutire l’impatto) allo Stato: costo per quest’ultimo, sui € 2 miliardi, che aggiunti ai 3 sin qui macinati da Alitalia, significano circa € 125 per ciascuno dei 40 milioni di contribuenti italiani. Esuberi: 3250 o ben di più, a seconda delle fonti, di cui 2750 in outsourcing (altro termine eufemistico inglese). Con Air France non c’era nessun costo per lo Stato e gli esuberi erano 2500. Ma quanto ci costano questi imprenditori italiani! Italiani? Alla fine subentreranno le solite società estere, magari con la consulenza di Goldman Sachs…

Credo che piacerebbe a tante piccole e medie imprese poter assumere e spendere a gogò e poi chiamare lo Stato a pareggiare i conti. Ma loro non fanno parte della cerchia dei privilegiati, dei parassiti di professione; loro sono chiamate a confrontarsi davvero con il mercato, pur distorto dalla presenza dei too big to fail, tipo Fiat e Alitalia; non godono neppure della cassa integrazione né delle rottamazioni e, se sgarrano, pagano di tasca propria o chiudono.

Beh, qualcosa di molto simile è successo pure qui da noi, a Finale. La Piaggio voleva traslocare; ma voleva che le spese non fossero a suo carico, ma a quello della collettività. Le grandi aziende, del resto, sono abituate ai ricatti occupazionali. Anni di lotte ambientali ce l’hanno insegnato: inquinamento o disoccupazione. Oggi il problema è meno evidente, in quanto qui da noi son rimasti la disoccupazione e il precariato, mentre l’inquinamento l’hanno spostato a Est: c’è sempre qualcuno nel mondo felice di prendersi i problemi altrui, seppure a caro prezzo (vedi anche Germania coi rifiuti di Napoli: Berlusconi risolve sempre tutto a caro prezzo per gli italiani).

Nel caso Piaggio, non si profilava una delocalizzazione verso Est, ma verso Sud, con la Campania pronta, si dice, ad accogliere con le fanfare il nuovo stabilimento. E così, agitandone lo spettro, il bluff, finto o reale, è riuscito, e il Comune ha chinato la testa: l’area Piaggio (e Ghigliazza a seguire) vedrà sorgere tanti nuovi condomini per la gioia delle agenzie immobiliari e degli speculatori; ma gioiranno anche le casse comunali grazie all’Ici, che comunque ci sarà, visto che saranno in prevalenza seconde case. I perdenti saranno i soliti: i cittadini, con lo snaturamento della città, la congestione, la probabile carenza di acqua, e via via tutto l’indotto di disagi che la ressa produce nei periodi di punta.

C’è anche da chiedersi da dove proverrà tutto questo fiume di denaro per pagare la realizzazione del maxi-agglomerato, in pratica un nuovo paese calato su Finale.
 

Ce lo si chiedeva già all’epoca –anni ’70- della lottizzazione San Bernardino, che il sindaco Bottino qualificava, a cose fatte, come “la collina del disonore”. Ma anche allora si usavano i soliti triti, frusti argomenti: costruendo si produce lavoro, e pecunia non olet. Anche se, aggiungevamo noi, era lavoro a tempo determinato (oggi si chiama precario), dopo di che, a lavori ultimati, si dovevano cercare nuove aree da distruggere, sempre “per dare lavoro”.

È il destino dei lavori irreversibili, come l’edilizia che non sia ricupero e restauro del patrimonio esistente. Poi si scoprì che, al contrario, pecunia olet, insomma quei soldi puzzavano di tangenti, e parecchi amministratori, pur avendo “dato lavoro”, finirono in carcere. Speriamo l’attuale sindaco non debba, sempre a cose fatte, fare le medesime recriminazioni di Bottino.

Le fonti di finanziamento sono due: una illegale, frutto di riciclaggio internazionale, e l’altra, para-legale, proveniente dalle banche tramite mutui.

Sulla prima non mi soffermo, perché non voglio certo sostituirmi agli organi competenti, che presumo svolgeranno oculate indagini, come in tutti i casi di grandi spostamenti di capitali.

Sulla seconda fonte invece vorrei spendere qualche parola. È appurato che le banche hanno soltanto un’infima, persino nulla, frazione dei soldi che pretendono prestare; motivo per cui hanno una discrezionalità ai limiti dell’assurdo nel concedere prestiti, grazie a leggi, fatte su misura, che hanno via via concesso loro questo sconsiderato arbitrio. Sconsiderato, perché dovrebbe essere competenza dello Stato, e soltanto dello Stato, emettere nuova moneta. Di fatto, invece, questa prerogativa se la sono usurpata, dapprima le banche centrali, e poi, in ben maggior misura (con un rapporto di circa 10:1) le banche commerciali.

Arrivati a questo punto, mentre per i bisogni essenziali scarseggiano o mancano i fondi, questi abbondano per opere di dubbia utilità, se non contrarie al pubblico interesse, come l’agglomerato sull’area Piaggio-Ghigliazza. E la discrezionalità dell’investimento non è lasciata all’ente pubblico che, in quanto tale, deve avere a cuore l’interesse, appunto, pubblico. Nossignori, la decisione spetta, che so, a Intesa San Paolo, a Unicredit o chissà quale altra banca o pool di banche. La pianificazione territoriale passa così nelle loro mani. Chi tiene in pugno i soldi, o così fa credere, dirige la danza.

E mentre il nuovo governo si balocca con i problemi personali di Berlusconi o gioca col fuoco delle neo-porcate di Calderoli, una legge che tornasse a limitare lo strapotere delle banche è l’ultimo pensiero dei nostri politicanti, ammesso che se lo siano mai posto. Loro fingono di governare, e intanto sono le banche a decidere a chi dare i soldi, che non hanno, ma che tutti siamo costretti ad accettare, a cominciare dallo Stato, loro vassallo. Aria fritta venduta per buona, a prezzi scontati alla speculazione, e con una grassa cresta sui prezzi finali degli alloggi: un mutuo a monte e tanti mutui a valle. È così che le banche riescono a guadagnarci due volte.

Finché non si estirperà questa cemento-dipendenza, l’aggressione del territorio e l’impoverimento generale causato dai fondi sottratti agli investimenti e ai consumi non futili proseguiranno. E le aree industriali e dismesse non accoglieranno opere di interesse pubblico, ma solo nuove case, case, case.

Ma, e se si ripetesse anche da noi il crunch edilizio stile USA? Forse gli speculatori ardiranno chiedere a Comune, Regione e Stato, un equo indennizzo, per la speculazione sbagliata. Embeh? Se la cordata è italiana, questo ed altro.

  Marco Giacinto Pellifroni          7 settembre 2008