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Piccoli affaristi NON crescono

Abbiamo il dono della natura di abitare in una terra meravigliosa, ma non sappiamo intenderla che come un tappeto di verdi fruscianti banconote

Nonna Abelarda  

  Di questi tempi sto leggendo, a spizzichi e bocconi per evitare che l’amarezza mi sommerga, l’impeccabile “Il partito del cemento”.

Fra le riflessioni che gli ottimi autori propongono, anche nelle presentazioni al libro, ve ne è una in particolare con la quale dobbiamo fare i conti tutti quanti: e cioè che questo depredare e fare scempio, questa speculazione, questo sistema radicato, inarrestabile  e irreversibile, non potrebbe attecchire, avere successo e procedere indisturbato se non ci fosse tutta una rete, diciamo così, di approvazione e condivisione, nella maggior parte della popolazione.

Non chiamiamola connivenza che è parola grossa e forse troppo pesante  in questo caso, ma è certo che una qualche indifferenza per l’ambiente, per l’estetica e la bellezza, abbinata ad amore per  le palanche fini a se stesse, un qualche ammiccamento nella speranza di ricevere vantaggi, almeno le briciole, da tutto questo giro di affari e di interessi, esiste, e rafforza il sistema.

E’ lo stesso discorso che si ripropone anche a livello nazionale: inutile che ce la prendiamo con questi politici senza ammettere che, dopotutto, rappresentano una buona parte di noi italiani. La coscienza civile e sociale va ricuperata innanzitutto dal basso, se no non si va da nessuna parte, non si riforma e non si cambia un bel niente, ma si finisce per riproporre la stessa minestra, magari con altri nomi e sigle.

Il rimuginare questi concetti si intreccia con tutta una serie di esempi che mi vengono alla mente. Premetto per obiettività che, come sempre quando parlo male dei liguri, non mi atteggio a moralista e non salgo su alcun pulpito, ma in qualche modo sono costretta a includermi e riconoscermi nella categoria.

In questi giorni si parla del PUC di Vado. Per pietà non entro nel merito, non essendo direttamente interessata, e avendo già le mie discrete rogne da grattare in quanto savonese. Non parliamo di giochi, scherzetti e manovre per catturare consensi. Mi ha colpito però leggere della protesta dei cittadini delle frazioni, che si sono visti declassare alcune porzioni del territorio da edificabile a fascia di rispetto dei borghi, secondo una certa direttiva.

Ora, prima considerazione: ma queste direttive, queste norme di conservazione del territorio e del patrimonio urbano, com’è che saltano fuori un po’ sì e un po’ no, a piacimento? Non dovrebbero, dico io ingenuamente, essere sempre valide, se esistono e sono in vigore, invece di venire richiamate e ignorate a capriccio in tempi e luoghi diversi, secondo quanto fa comodo?

Seconda considerazione: inizialmente ero propensa a solidarizzare con gli interessati. So bene, per averlo sperimentato in altro comune, cosa voglia dire dover rinunciare a qualche piccolo necessario ampliamento o risanamento della propria casa d’abitazione, a raddrizzare un tetto, migliorare un’estetica, in nome di criteri rigidissimi applicati con ottusa e pedestre solerzia, quasi a bilanciare  in un  curioso contrappasso le sfrenate libertà edificatorie di altri luoghi e di altre disponibilità economiche.

Ma poi ho letto (sempre che l’articolo di quotidiano riferisse obiettivamente, è ovvio: sempre meglio diffidare, di questi tempi)  che si lamentavano in quanto i loro terreni, così, non essendo più edificabili crollavano di valore.

E mi sono cadute le braccia. Eccolo lì, il tipico ligure con il gruzzoletto sotto il mattone, tutto soddisfatto, compiaciuto di saperlo al sicuro, mentre magari è roso dai topi e coperto di muffa. Ma che importa? Meglio mandarlo in rovina, ma tenerselo stretto, che provare a ragionare in modo più lungimirante. Il denaro, per poco che sia, sempre come fine e mai come mezzo.

A queste persone non importa nulla l’idea di distruggere la propria terra? Di cancellare qualsiasi identità urbana, di defraudare le generazioni che verranno, di vedersi crescere intorno una boscaglia di casette, anonimi agglomerati che peggiorino la qualità stessa del loro paese, l’inquinamento, il traffico.

No. Quello che importa è il gruzzolo, quei quattro spiccioli che si pensa prima o poi di realizzare. Magari anche mai. Ma basta l’idea: solo questo dà tranquillità, non siamo capaci di pensare ad altro, di guardare più in là del nostro naso.

 I valori non immediatamente tangibili, come ciò che si ricava da investimenti a lungo termine, da idee innovative e coraggiose, si rifuggono. Non parliamo poi dei valori intangibili, come l’ambiente, la bellezza, la qualità della vita: quelli non esistono proprio.

Alla mente mi si affacciano molti altri esempi significativi: da quella famiglia che abita in città e possiede per eredità un paio di catapecchie con terreno, nell’entroterra. Da quando i genitori non sono più in grado di prendersene cura, la terra è in abbandono, le case piene di crepe e invase dai rovi fin nell’interno, eppure la figlia si aggira nei dintorni con aria da latifondista brasiliana, e a chi vorrebbe comprare spara cifre da capogiro, tutta compiaciuta dei propri “possedimenti” . Nella sua completa cecità farà crollare fino all’ultima pietra, non farà manutenzione e non spenderà un centesimo se non obbligata, pur di non intaccare il presunto capitale che continua a ricontarsi nella mente, come banconote virtuali sempre più evanescenti.

Oppure ci sono molti anziani che conosco, “single”, si direbbe oggi, in realtà scapoloni o zitelle fossilizzati e privi di parenti stretti, che ai tempi d’oro del dopoguerra con il proprio lavoro o con oculato impiego di denaro hanno accumulato fortune immobiliari, appartamenti, garage, negozi. Girano conciati come pezzenti, si reggono in piedi a stento, chiedono affitti esorbitanti per ogni buco improponibile, tanto che qualsiasi negozio si pretenda di aprirvi è destinato a fallire, litigano aspramente nelle riunioni condominiali rifiutando il benché minimo lavoro di manutenzione, sono ossessionati dalle loro proprietà. Dato che sono assidui frequentatori dei primi banchi in chiesa, mi chiedo cosa mai abbiano assimilato della dottrina che professano.

 Ecco come siamo, in generale, noi liguri: avidi a sproposito, gretti, miopi, insensibili, aridi e cinici a volte, persino ciechi e sordi, con la pericolosa tendenza a scambiare tutto questo per buon senso, lucidità, concretezza, previdenza.

Abbiamo il dono della natura di abitare in una terra meravigliosa, ma non sappiamo intenderla che come un tappeto di verdi fruscianti banconote. Non c’è amore, non c’è rispetto, non c’è cura, non c’è sensibilità. Basta vedere che razza di putiferio scoppia ogni volta che si parla di parchi naturali.

Dovremmo esserne orgogliosi, considerare quelli un patrimonio, fonte di sviluppo turistico e ricchezza duratura per i singoli e la comunità, preziosi polmoni verdi del futuro, un altro modo più rispettoso di fruire del territorio.

Ma no, non sono mazzetti di biglietti da contare subito, da stivare sotto il materasso. Preferiremmo vederli bruciare, quei boschi, che consegnarli ai vincoli ambientali. Cosa che a volte, in  modo quanto meno sospetto, succede.

E intanto, mentre noi ottusamente continuiamo a far recinti di vecchie reti dei letti, contemplare catapecchie in rovina, terreni incolti  e bugigattoli inutilizzati,  con la scritta affittasi in perenne evidenza,  mentre continuiamo ad ascoltare chi ci parla di un non meglio precisato, ma sempre promesso, sviluppo, i nostri figli emigrano, chissà come mai. E al loro posto arrivano stranieri sfruttati in una società anziana e acida, in una economia asfittica di sussistenza, depredazione, sfruttamento, speculazione, degrado.

Nonna Abelarda alias Milena De benedetti