Anche “Milia”!
![]() Emilia Fiorito, “Milia” | Se ne sono andate insieme alle loro barche, ai capaci “gozzi” resi bellissimi dal continuo lavoro. Quando la pesca è venuta meno, travolta ed invecchiata nel nostro mondo, le grandi barche ferme sui “paè” sono state lasciate a screpolarsi, a sconnettersi ed a risolversi smontate, alla fine, come persone. Non ci sono più, sulla scaletto delle Fornaci, la “Elda”, la “Fiorito I”, la “Fiorito II”, la “Marghe”: finite in roghi, come una cremazione. Non c’è più il pentolone rossiccio in cui si bollivano le reti; non più le reti ad asciugarsi di pomeriggio distese lungo l’arenile; non più l’odore forte delle “cassette” del pesce e l’iridare delle scaglie che s’impolveravano nella sabbia. |
Non c’è più “Siarìn” (uno dei tanti!) col fisico magro e da ragazzo e la pelle fatta di salsedine che guarda l’orizzonte per decidere dove dirigere la “ Marghe” a far preda d’argento; non ci sono più le grandi luci ad acetilene o a pesantissime batterie elettriche che sul far della sera disegnano, prima della partenza, il loro cono sulla battigia sfuggente. E da pochi giorni non c’è più Emilia Fiorito, “Milia”, l’ultima guardiana di un’epopea ora vuota e che presto sarà travolta anche nel ricordo. “Milia” dal corpo forte come un uomo,dai comandi taglienti ed al tempo stesso affettuosi, dai capelli nerissimi. Sempre in movimento,col suo passo reso strano e pesante dai gambali di gomma,di sicuro almeno un numero più grandi,col volto deciso. Mai in chiacchiere! L’unico riposo, un caffellatte, spesso in piedi, al bar dei pescatori. “Strigliava” il suo equipaggio che tirava la rete perché non voleva discorsi o battute, ma rapidità ed impegno, che poi generosamente ripagava. I ragazzi delle leve vicine alla mia hanno ricavato i soldi per le sigarette (comprate sciolte, arrotolate nelle schedine del totocalcio) prendendo una “cengia”, arrotolandone la catenella con gesto veloce alla fune e tirando lasciandosi andar di peso all’indietro, al ritmo della “Milia” che ripeteva: ”Tièmmu!” e arrotolava in un tondo perfetto la fune che non ho mai visto crollare, pronta subito per un’altra “cala”. Gozzi e reti erano un capitale d’esperienza e di perizia da custodire con cura ed il mio amico Carlo Astengo, fornacino e discendente di pescatori, li ha raccontati e descritti con amore, prima che ne scompaia anche il ricordo. Si cominciava a tirare la fune quando, dal gozzo “padrone” si vedeva alzarsi verticale un remo:era il segnale. A poco a poco i piedi scavavano la sabbia per lo sforzo e le due ali della rete si avvicinavano. I comandi di “Milia” erano secchi e attenti: le “ali” dovevano procedere parallele e a giusto ritmo per far da trappola. |
![]() | Quando arrivavano le zone di rete a maglia,si tirava con le mani e si aumentava la velocità,come i rematori del canottaggio. Allora “Milia” sembrava cantare frasi che erano solleciti e preghiere insieme. Ci elogiava, ci spronava. Diceva che eravamo bravi come Mario Varaldo,un pezzo d’uomo che credo tirasse da solo la rete, ricordava altre “pescate” felici e, nella concitazione, si sentiva soltanto il gocciolare dell’acqua e la sua voce accorata, che ricordo come fosse adesso: un’invocazione al destino, perché desse giusta ricompensa a chi faticava. |
Per noi avventizi, non c’era molto da fare, se non accorrere con “corbe” e “cassette” ai richiami imperiosi ed eccitati di “Milia”. I più esperti scioglievano il “sacco”, lanciavano lontano (quante volte ci hanno colpito in pieno!) i mucchi di alghe,sollevavano le pieghe a raccogliere,velocissimi, i pesci grandi e rari e a lanciarli nei contenitori. Quelli più ovvi e piccoli si facevano scorrere in cestoni di zinco. L’operazione era velocissima: ”Milia” o partiva con una bicicletta color ruggine che aveva applicato al sottosella un carretto con ruote su cui si collocavano le ceste pedalando decisa e con gran forza,per il peso, a suon di gambali diretta alla pescheria del porto vecchio o curava, se era l’ultima pescata, l’issare in secco del gozzo con noi che giravamo le pesanti leve dell’argano facendo scorrere lentissimamente sui “paè”, cambiati con gesto rapido, il grosso battello per qualche ora a riposo. “Milia”, allora, faceva il giro della sua zona (L’altra era assegnata a Margherita, la moglie di “Siarìn” Bruzzone) con il classico carretto a due grandi ruote, foderato di zinco e col pesce in bella mostra nelle ceste bassissime e larghe. Un ragazzo andava e veniva col secchio ad attingere acqua di mare per tener fresca la merce guizzante. Le “pescoeie” avevano i loro sonori richiami. Ricordo il “Belli freschi i pesci!” “Pignuetti e bughe” “Anciue belle fresche” di Margherita (abitavo nella sua zona!) e i cestini che calavano dalle finestre mentre, ad altissima voce, si contrattava peso, pesce e prezzo. Tutto finito. Anche l’ultima “pescoeia”, forse appena appena un poco stanca, ha chiuso la finestra sullo scaletto e si è come ritirata dalla vita. Io la vedo ancora, nei pomeriggi, seduta sulla sabbia, rammendare veloce ed esperta le maglie della rete distesa con un suo ago enorme, silenziosa, come se la concitazione della pesca fosse lontana. Lavorava per ore: la rete era un capitale ed andava custodita (gli uomini d’inverno avevano una cura faticosa, ma essenziale, per il gozzo, forte e delicatissimo, al tempo stesso e non so esprimere cosa provo quando li vedo far falò!). Veniva sera e si ricominciava col l’imbarcare corde e rete sul gozzo, e via così! Mi sono sempre chiesto cosa pensasse ”Milia” in quelle lunghe ore in cui era insolitamente ferma e alzava soltanto la testa per scacciare chi, come noi, per passare calpestava le reti. Era proprio arrabbiata, ed a ragione! Poi, di nuovo, il silenzio dei suoi chissà quali pensieri. Anche questo, un’eredità per chi ricorda. Sergio Giuliani |