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IL LIBRO DEL MESE

Massimo Bianco

“IL MIO NOME E’ ROSSO”

Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006. Lo so, lo so che qualcuno sentendo la parola Nobel si spaventa, perché la considera sinonimo di noia, di mattonata. Ha vinto il Nobel? Sarà una roba scritta benissimo, per carità, non se ne discute, ma di certo pesante, astrusa, illeggibile, vade retro. Pamuk, premio Noia 2006.

E invece no. Esistono eccezioni e Orhan Pamuk è un autore impegnativo, ne do atto, ma scorrevole, stimolante e interessante e “Il mio nome è rosso” (Einaudi editore) è un autentico capolavoro, di grande spessore e incisività.

Un romanzo d’amore, una storia di intrighi e di misteri che conducono fino alle stanze segrete del palazzo del Sultano, confermando l’eccezionale talento narrativo e la grande sensibilità poetica di Orhan Pamuk.

Istanbul, 1591. In una città scossa da antiche inquietudini e nuovissime tentazioni, tra i miniaturisti del Sultano si nasconde un feroce assassino…

Così recita la quarta di copertina in un’edizione di poco precedente all’assegnazione del premio e per una volta non ci sono inganni. Questo libro ricchissimo di sfaccettature è un romanzo giallo, è un romanzo storico, è mille altre cose ed infine è anche una storia d’amore. Bisogna però intendersi, quando si affibbiano dei colori, giallo o rosa che siano. In un tradizionale giallo o rosa le storie sovente sono fini a sé stesse. Narrano un indagine investigativa o un intreccio sentimentale con l’unico scopo, comunque lodevole, di avvincere il lettore, benché poi gli autori migliori riescano anche ad offrire uno spaccato autentico della loro società. Invece Pamuk, come si può immaginare, ha ben altro in mente. Ciò che l’autore tratta davvero in “Il mio nome è rosso” e in altre sue opere è lo scontro incontro tra due civiltà che faticano a comprendersi: (medio) oriente e occidente, Islam e cristianesimo. Scrive di un mondo, l’Islam, che da sempre teme e combatte l’occidente eppure ne è irresistibilmente attratto e corrotto e ne assorbe lentamente ma inesorabilmente la cultura. Accadeva nel ‘500 per influsso dell’arte veneziana e accade oggi per influsso del dirompente sistema consumistico e degli invadenti media. C’è dunque un omicidio, ma causa ultima del delitto è proprio questa sottile ma inesorabile forma di corruzione.

Nel romanzo in esame questo mese, Pamuk confronta i due mondi attraverso le due diverse scuole artistiche del ‘500. Da una parte quella dei miniaturisti turchi e musulmani e dall’altra quella dei ritrattisti veneziani e, per estensione, italiani ed europei.

Le miniature citate, sarà il caso di chiarire l’argomento del contendere, illustravano i libri antichi. In esse gli artisti dell’islam non dovevano rappresentare il vero, non erano tenuti a imitare la realtà. Le figure disegnate, alberi, cavalli, guerrieri, donne, non erano rappresentate in maniera realistica ma stilizzata e la capacità artistica degli autori consisteva nell’imitare alla perfezione le forme tradizionali. Ogni estro, ogni invenzione, ogni prova di stile personale che portasse a uscire dai canoni era considerata errore. Un albero non doveva essere riconoscibile come quella tale quercia,  frassino o abete presente nel giardino del Sultano, ma doveva rappresentare per così dire la “Alberità”. Al contrario, i maestri veneziani utilizzati nel testo in qualità di paradigma riproducevano a tal punto il vero da avere scoperto perfino le ombre e la prospettiva. “Parlammo di prospettiva, discutemmo se fosse eresia disegnare le cose che stanno dietro sempre più piccole, come nei disegni veneziani.

E se la perizia di un artista consisteva anche nella sua capacità di riprodurre con minuzia realistica un personaggio, vedasi ad esempio il famoso “Ritratto di Paolo III con i due nipoti” Di Tiziano (Napoli, museo di Capodimonte), a Istanbul tale comportamento appariva inaudito:

Due anni fa sono stato di Nuovo a Venezia, come ambasciatore del Nostro Sultano. Guardavo continuamente i ritratti fatti dai grandi maestri italiani. Senza sapere a quale scena di quale storia appartenesse il personaggio ritratto ma cercando di capire e indovinare. Un giorno sono rimasto attonito di fronte a un dipinto su un muro di un palazzo. (…) Il maestro italiano aveva ritratto il signore veneziano in modo da far capire subito che il disegno rappresentava quel signore. Anche senza conoscere quell’uomo, se ti dicessero di trovarlo in mezzo alla folla, grazie al ritratto potresti riconoscerlo tra migliaia di persone. I maestri italiani hanno scoperto il modo e l’arte di dipingere che differenziano un uomo qualsiasi dagli altri mettendo in evidenza la forma del volto, non i vestiti e le medaglie.”


Orhan Pamuk

Due modi di intendere l’arte per rappresentare due modi di intendere l’esistenza. Qualcuno potrebbe considerarla una mera questione di lana caprina ma non è così, perché per l’islam rappresentare la figura in generale e quella umana in particolare è peccato e dunque il lasciarsi influenzare dagli italiani poteva allontanare “l’arte della miniatura dallo sguardo di Allah.

E se a noi occidentali l’importanza di tutto ciò ci sembra difficile da comprendere, forse proprio con il nostro mal comprendere dimostriamo la distanza che ci separa da quella cultura.

Il testo è stilisticamente ineccepibile, non si vince il Nobel (spero) se non si è in possesso di una tecnica di scrittura sopraffina. La trama è portata avanti in maniera originale. Trattasi, infatti, di romanzo corale, raccontato di capitolo in capitolo, in prima persona singolare, sia da una decina di personaggi, protagonisti a turno e a rotazione della narrazione, sia, curiosamente, da alcuni oggetti e ritratti inanimati. Ad esempio il rosso del titolo, non svelo un gran segreto scrivendolo qui, non è un misterioso personaggio decisivo per la risoluzione dell’intreccio, ma è il colore rosso usato per quadri e disegni, che descrive il mondo dal proprio particolare punto di vista:

Amo stare nelle rappresentazioni di guerra dove il sangue si apre come un fiore. Sul aftano del poeta più bravo mentre uomini e poeti bevono vino e ascoltano musica sui prati, sulle ali degli angeli, sulle labbra delle donne, sulle ferite dei morti e sulle loro teste tagliate che grondano sangue. Sento che vi domandate: cosa vuol dire essere un colore? Il colore è il tocco dell’occhio, la musica dei sordi, un grido nel buio.

Che a intitolare l’intera opera sia il capitolo il cui narratore è il colore rosso è significativo: l’arte pittorica è dunque il nucleo più profondo della storia.

La suspense tuttavia è mantenuta fino all’ultimo. Come si è detto c’è stato un efferato omicidio e questo delitto non è una mera scusa per intrattenere il lettore ma è il motore portante dell’intero racconto e, a dimostrazione di ciò, Pamuk pone la vittima stessa a presentare il crimine addirittura nell’incipit del romanzo:

Adesso io sono un morto, un cadavere in fondo a un pozzo. Ho esalato il mio ultimo respiro ormai da tempo, il mio cuore si è fermato, ma, a parte quel vigliacco del mio assassino, nessuno sa cosa mi sia successo. (…) Ero felice, ero veramente felice, ora lo capisco. Nel laboratorio di miniatura del Nostro Sultano io facevo le dorature migliori e non c’era doratore dotato di pari maestria. (…) Ma chi è il mio assassino, chi è la persona nei cui confronti provo una tale rabbia? Perché mi ha ucciso in modo così inaspettato? Siete curiosi? Pensate che il mondo sia pieno di assassini che non valgono niente, che uno valga l’altro? Allora vi avverto fin d’ora: dietro la mia morte c’è uno scandaloso complotto contro la nostra religione, le nostre tradizioni, contro il nostro modo di vedere il mondo.

Tre sono coloro su cui si concentrano fin dall’inizio i sospetti, i tre maestri miniaturisti chiamati Farfalla, Cicogna e Oliva. Uno dei tre a quanto parrebbe dovrebbe essere l’assassino, ma l’autore non è così ingenuo da rivelarne anzitempo il nome. Qui anzi Pamuk rivela tutta la sua ingegnosità. In alcuni capitoli, intitolati “Di me diranno che sono un assassino” l’omicida narra in prima persona, stando bene attento a non svelare al lettore la propria identità. In altri capitoli, intitolati “Il mio nome è Nero”, l’uomo di nome, per l’appunto, Nero, innamorato della bella Sekure figlia di colui il cui punto di vista rappresenta l’occidente, ha l’incarico di scoprire il colpevole. Infine ci sono tutti gli altri personaggi del coro, tra cui i tre miniaturisti in mezzo ai quali si nasconde l’omicida. Uno dei tre dovrebbe dunque essere la medesima persona che appare anche quando l’autore intitola “Di me si dirà che sono un assassino”, ma quale dei tre?

La lettura non sarà magari leggerissima e richiederà un minimo di concentrazione, anche perché la tecnica utilizzata è inusuale e il saltare di continuo da un punto di vista a un altro non aiuta, eppure, garantisco, prende, dà da pensare e invoglia il lettore a proseguire fino alla fine.

Massimo Bianco.