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Un detenuto a Turi.                           

              “Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non
so cosa sia, ma che probabilmente è un

                                 
                     fiore e non un’erbaccia”

                                       Matricola n° 7047 della Casa Penale di Turi

di Sergio Giuliani

Bisogna non negare, ma assorbire il responso delle urne: non si corregge una struttura se prima non la si capisce profondamente. E poi, una democrazia ben radicata come la nostra dà segnali che vanno rispettati, non soltanto derisi o schifati. Voto “europeo”, si è detto.
Da tempo nel nostro continente sono al potere i centro-destra.

La Spagna è un’eccezione perché soltanto nel 1975 si è liberata del franchismo e, quindi, ripercorre, certo rapidamente, il cammino democratico che ben conosciamo.

Voto andato a un coagulo fisiologico in cui c’è chi mette denari e battute e fa piazza per ammirazione, chi abbaia e fa piazza perché promette una qualche giustizia a una plebe inc. e chi, reso sapiente dalle attese, condisce il tutto in salsa di politica esperta e di competenze su basi vecchio-nuove.

I problemi ci sono, grossi come un temporale che si addensa: statunitensi, europei, italiani: da noi aggravati da povertà energetica e di risorse produttive (persino la rete idrica, quella ferroviaria e quella stradale sono da rivedere con urgenza!) e da costipazione statalista.

Certa comunicazione - denuncia ( “casta”; ”fannulloni di stato”; ”mimandaraitre”; ”bamboccioni”) è stata diffusa in modo interessato e berciante non certo per far riflettere, quanto per scatenate un voto di protesta, che è piovuto abbondantissimo e di cui sarebbe irresponsabile che vincitori e vinti non tenessero il debito conto.

Quindi, occorre non scervellarsi troppo sui flussi di voto, non litigare sulle “olpe”, perché, quando in democrazia si perde si è tutti compromessi e guai a non capire che gli elettori non sono marionette da ammaestrare ma,piaccia o no, teste a loro modo pensanti, corto o lungo che sia il respiro del loro pensiero. In una parola, occorre ripartire dai demeriti collettivi.

 Ce ne sono; li conosciamo tutti ed è inutile pontificare su “linee” tradite o meno o inesistenti. Inutile anche certo “buonismo” esasperato (adesso!!!) o, peggio, un disorientamento stupito come davanti a un giocattolo rotto e la voglia di ricomprarlo eguale.

Non voglio qui ricordare il biennio 1920-1922, ma invitare a capire certe pericolose analogie. Cominciamo col dire che, se la politica, coraggiosamente perseguita, del governo Prodi non è andata a buon fine, non è perché non fosse valida nei principi risanatori, ma perché è stata volutamente resa impossibile da praticare, sciupata un attimo dopo della nascita e diventata defatigante nella gestione. Il “nulla” che si è stretto in pugno non è risultato di partenza né di insipienza, ma esito d’una navigazione troppo burrascosa. Non tiriamo in ballo il “Nutro fiducia” di Facta, ma certa stanchezza preoccupa.

Il re, davanti a problemi enormi come i costi umani di una tremenda guerra, la riconversione dell’economia e la diatriba massimalisti-riformisti che uccideva i socialisti e non faceva fiorire i comunisti, diede il potere a un socialista traviato che, nelle contese operai-reduci fu a fianco di questi ultimi, che prese un pugno di voti alle prime elezioni cui si presentò, ma vinse le seconde, tanto da aver l’incarico di formare un governo prima di coalizione, poi monocolore e di guadagnare l’appoggio degli industriali e della chiesa d’allora.

Chissà se è vera la versione che vuole Antonio Gramsci preavvertito alcune ore prima dell’arresto, senza che egli ne approfitti. Probabilmente una favola, ma mi ha sempre un poco intrigato.

Sardo, intelligentissimo a scuola, borsa di studio savoiarda per completare gli studi all’Università di Torino, anima del gruppo de “L’Ordine Nuovo”, capisce che i fatti di Russia possono sì esaltare, ma vanno tradotti in salsa italiana, che il vecchio partito socialista ansima fra notabili e retorica ed è strumento quanto mai inaffidabile nella durezza dei nuovi tempi. Capisce che bisogna ricreare una nuova cultura politica, fuor di schemi e di attendismi (nulla, in politica ed in economia, crolla mai da solo o perché lo si è sognato!) e invita a lavorare duro per preparare coscienze e “quadri”. Per sé, sceglie  lo scrivere, in condizioni disastrose e con un fisico sempre più minato, un’enciclopedia del nuovo pensiero che, fortunosamente salvata dalla cognata (i “Quaderni”) finirà….nel caveau della Banca Commerciale di Milano, là dove i fascisti non si sarebbero mai sognati di cercarla.

Gramsci mina il potere fascista due volte: una, col suo arresto e condanna per soli reati di pensiero, fa indignare tutto il mondo civile; l’altra, con lo scrivere, senza biblioteca, un’enciclopedia della cultura moderna in cui dà la definizione del moderno partito (altro che quelli di inizio secolo!): un machiavelliano “principe” virtuoso che non aizza gli amministrati, ma ne ascolta le istanze scegliendole e convogliandole con mano sicura, come un fiume fa con gli affluenti di cui vive e che fa vivere. Il “principe” ha la necessaria cultura per capire i problemi e la qualità delle richieste che gli giungono. Ne fa una sintesi virtuosa in cui nulla va perduto e che ha efficacia, saggezza e competenza.

Capire la realtà non da miopi è certo faticoso, ma ratio sine qua non un movimento politico si legittima in quanto più coerente, più concreto e più incisivo di altri naturalmente divenuti minoritari.

La politica è lavoro, confronto e studio. A tatticare troppo si finisce …per raccogliere un voto ogni tre elettori.

Quindi, si riparta!

                         Sergio Giuliani