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BANCHE CENTRALI E MONDIALI: MA FUNZIONANO?

di Marco Giacinto Pellifroni

 

Due weekend fa si sono tenute a Washington le Assemblee annuali del Fondo Monetario Internazionale (IMF in inglese) e Banca Mondiale (WF), fornendo l’estro al gotha finanziario internazionale, ivi convenuto, di dare giudizi e stime sullo stato dell’economia nei vari Paesi, tra cui una revisione al ribasso della crescita italiana allo 0,3%. Ma quali sono le funzioni statutarie di queste due banche mondiali e in base a quali esigenze hanno avuto origine? Vediamo.

Nel luglio 1944, con la seconda guerra mondiale ancora in corso, le nazioni ormai prossime alla vittoria si riunirono negli USA, a Bretton Woods, e siglarono un accordo che mirava soprattutto a stabilizzare il mercato dei cambi, ancorando la varie valute al dollaro, il cui valore venne a sua volta legato all’oro, in ragione di $ 35 l’oncia, elevandolo ipso facto a valuta di riferimento e di riserva internazionale. I firmatari avevano ancora ben vivida in mente la Grande Depressione, durante la quale s’era innescato un incontrollato disordine nei cambi, con svalutazioni a catena per agevolare le esportazioni e il risultato finale di disoccupazione e miseria generale.

Furono così istituiti i succitati IMF (International Monetary Fund) e WB (World Bank), che avevano come scopi primari la vigilanza e l’intervento sui cambi, per smorzarne eccessive oscillazioni, e la concessione di prestiti a medio e lungo termine alle nazioni disastrate dalla guerra (in seguito estesi alle nazioni povere del c.d. terzo mondo).

I criteri adottati dalle due suddette istituzioni per la concessione dei prestiti alle nazioni povere, condizionate però all’adozione di regole economiche di ossessivo liberismo e contrarie alla loro cultura, le resero alla fine ancora più schiave delle nazioni ricche. Lo smarrimento degli scopi originali e statutari di IMF e WB, dovuti a questi diktat iugulatori, portarono via via ad un allontanamento degli originari mutuatari da queste due fonti di prestiti, anche per il progressivo affrancamento dal bisogno di nazioni ricche di materie prime, in precedenza sfruttate da compagnie multinazionali dietro la concessione di risibili royalties.

Siamo oggi giunti ad una situazione in cui gli antichi erogatori non hanno quasi più richieste di prestiti, mentre i loro sontuosi bilanci continuano a viaggiare a livelli di miliardi di dollari; tant’è che l’IMF già da un paio d’anni sta chiedendo alle nazioni membro l’autorizzazione a vendere una cospicua parte (ben 400 tonnellate) delle sue riserve d’oro per far fronte ai suoi stessi debiti!

Non solo l’IMF non riesce più a stipulare prestiti per mancanza di domande, ma non riesce neppure più a svolgere il suo scopo primario di regolare il mercato dei cambi, travolto da un dollaro in caduta accelerata nei confronti delle altre principali divise. Si sta in sostanza verificando proprio il fenomeno per arginare il quale era nato l’IMF: evitare svalutazioni dichiarate o pilotate, e paradossalmente proprio della valuta originariamente assurta a riferimento di tutte le altre. Un bel fallimento, che dovrebbe portare al riconoscimento dell’inutilità del costoso mantenimento di un’istituzione incapace di svolgere il compito precipuo che ne aveva motivato la nascita. (Analoghe considerazioni valgono per la WB).

Se poi passiamo alle banche centrali, viene parimenti da chiedersi se stiano adempiendo alle loro funzioni statutarie: prima fra tutte il mantenimento del potere d’acquisto delle monete da loro emesse e regolate. Ancora una volta, la maggiore trasgressione da questa regola prima è addebitabile alla banca centrale americana, la Federal Reserve (Fed). Non v’è dubbio che la Fed stia attuando deliberatamente una politica di accentuata svalutazione della moneta che dovrebbe tutelare, proprio per favorire le esportazioni e compensare le ciclopiche importazioni da Paesi con valuta altrettanto deliberatamente debole, come la Cina e l’India. Esattamente ciò che accadde negli anni della Grande Depressione, con le ben note, tragiche conseguenze. In più, da ormai incallito debitore, la Fed pratica la politica più consona a questo status, perseguendo un secondo obiettivo: quello di rendere il debito pregresso meno pesante grazie alla svalutazione della valuta in cui il debito stesso è denominato; svalutazione ottenuta sia con ripetuti tagli dei tassi che con altrettante poderose iniezioni di liquidità. Questa politica poteva però avere un senso quando il valore aggiunto alle materie prime ed energetiche di importazione era molto alto grazie ad un’elevata tecnologia impiegata in fabbriche domestiche; ma perde di peso dopo la delocalizzazione di gran parte delle sue sofisticate industrie in territori oltremare, col solo risultato di una progressiva fuga dei suoi creditori dal dollaro, vista la certezza del suo continuo e irreversibile affondamento. 


Alan Greenspan

Come si è arrivati a queste misure fallimentari? Grazie a due orientamenti radicatisi dai primi anni ’90, con il lungo insediamento alla guida della Fed di Alan Greenspan e poi dal suo successore Ben Bernanke (ironicamente Bernspan): a) deregulation nei mercati; b) denaro facile per stimolare le riprese dopo i ripetuti scoppi di bolle speculative, innescandone così di nuove

Oggi il continuo taglio dei tassi americani e il cocciuto rifiuto della Banca Centrale Europea di toccarli anche minimamente, anzi con la recente minaccia di alzarli ulteriormente, ha portato ad uno squilibrio insostenibile tra le due sponde atlantiche, dimostrando l’inefficienza di una terza istituzione, che dovrebbe armonizzare le politiche delle varie banche centrali: la BIS (Bank of International Settlements), con sede in Svizzera, a Basilea. Ė questa la banca delle banche centrali, ed anch’essa è quindi venuta meno ai suoi compiti istituzionali; e ciò, nonostante le riunioni a cadenze mensili presso la sua sede dei principali banchieri centrali mondiali.

Tutto questo genera in noi un senso di totale impotenza e distanza dai centri decisionali, ossia tutto il contrario di ciò che i sistemi democratici dovrebbero garantire al popolo dei loro smarriti elettori. Impotenza e distanza accentuata dal fatto che ai vertici delle banche mondiali e centrali sono insediate persone non scelte affatto dai contribuenti ma nel chiuso dei vari CdA delle banche stesse. Che poi i loro burattini, ossia la classe politica, ostentino elezioni popolari è di scarsissimo rilievo sui veri moventi delle decisioni che a livello internazionale prendono i grandi banchieri e che i politici devono supinamente mettere in atto, qualunque sia il loro partito di appartenenza. Ne ha dato ampia prova l’uscente governo, che non ha fatto che prodi-garsi a favore delle banche, con l’ultimo capolavoro della non trasferibilità degli assegni e la limitazione delle operazioni in contanti col pretesto dell’anti-riclaggio/terrorismo.

Del resto anche i pochi politici dissenzienti, come Sarkozy, nulla possono, nello schema legislativo calato su di loro dal Trattato di Maastricht, mettendo bene in evidenza il loro scarso potere effettivo nelle cruciali decisioni di politica monetaria e finanziaria.

Persino l’IMF, ossia una banca dell’establishment, raccomanda a quelle centrali di uniformare le loro politiche creditizie, onde scongiurare il pericoloso divario esistente e crescente tra Fed e BCE, con tutti gli scompensi valutari e commerciali che esso comporta. Raccomandazione a quanto pare inascoltata, per versi opposti, dall’una e dall’altra banca centrale, unite da una sola preoccupazione: salvare le rispettive banche commerciali, costi quel che costi, e cioè costi pure il dissesto di milioni di bilanci familiari. Tanto, i loro CdA non devono rispondere a nessun elettore, e quindi le famiglie vadano pure a fondo; o meglio, facciano loro da salvagente di ultima istanza delle banche commerciali, che, giova ripeterlo, delle banche centrali sono gli unici azionisti, e tutti privati (in Bankitalia, ad es., di azionisti pubblici non ce ne sono, tranne un misero 5% dell’INPS).

La palma dell’ambiguità spetta comunque alla “nostra” BCE, che continua a pompare dosi astronomiche di liquidità nel circuito bancario per salvarlo dal fallimento, trasferendone le conseguenze, ossia l’inflazione, nelle nostre tasche; e poi ci chiede di restringerci, di non chiedere adeguamenti di pensioni e salari, proprio per frenare quell’inflazione che essa stessa ha creato. Al fondo di questo comportamento sta il fatto che la BCE non è che il nuovo nome della Bundesbank, ossia della vecchia banca centrale tedesca; mentre l’euro non è che la sua nuova valuta, al posto del marco. In conseguenza di ciò, la BCE guarda all’Europa da un’ottica puramente germanica, tuttora memore della tragica inflazione degli anni ‘20. E che le economie francese, italiana, spagnola, irlandese, etc. stiano andando a picco a causa di un marco, pardon, di un euro troppo alto, non la turba minimamente, almeno fintanto che l’economia e le esportazioni tedesche reggeranno. Solo quando anche queste ultime cominceranno a rallentare (come sembra imminente), la BCE-Bundesbank verrà a più miti consigli. D’altronde, non è un caso che la sua sede sia in territorio tedesco, a Francoforte, e che Trichet di francese abbia ormai soltanto il nome.

Mentre grazie agli strateghi internazionali la miseria dilaga, colpendo ormai anche il proverbiale piatto di minestra (il panem), i cervelli degli impoveriti italiani vengono distratti e anestetizzati dal dilagare dei circenses: cronache di gran premi auto-motociclistici per ogni dove e in ogni stagione; resoconti e commenti di coppe e partite di calcio ad ogni ora del giorno e in ogni giorno della settimana; quiz e programmi TV spazzatura; festival canori dalla Liguria alla Campania; concorsi di bellezza per ambo i sessi; e gossip, tanto gossip su divi e politicanti. E possiamo considerarci fortunati: in altri Paesi mancano sia il panem che i circenses.

 Marco Giacinto Pellifroni                                               27 aprile 2008