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A CUORE APERTO: QUALE FUTURO PER I NOSTRI FIGLI?

di Marco Giacinto Pellifroni

 

In questi ultimi anni ho raccolto varie confidenze da parte di amici, sia di lunga che di breve data. Confidando loro le mie angustie per un decente inserimento dei miei figli nel mondo del lavoro o di quella sua sottospecie che è il precariato, ricevevo da loro analoghe confessioni. Ne è emerso un quadro che credo costituisca lo scorcio di una situazione, tanto pudicamente occultata quanto reale, della società italiana attuale.

Una società che vive della rendita di attività passate, sia proprie, qualora si tratti di persone dai capelli grigi o bianchi, sia di parenti di età avanzata o defunti. Insomma, una buona parte di noi vive di eredità, in forma diretta o indiretta; mentre chi non ha la fortuna di avere genitori, nonni o antenati benestanti o semplicemente previdenti, deve affrontare una durissima lotta per l’esistenza, a meno che non abbia parentele o amicizie nei posti giusti, grazie alle quali riesce a piazzarsi in qualche impiego pubblico parassitario, di cui casta e sottocaste hanno costellato l’Italia. D’altronde, un recente sondaggio tra i giovani rivela la loro, non infondata, convinzione che la carta migliore per ottenere un posto di lavoro siano le raccomandazioni.

Quei giovani che, non avendo avuto la fortuna (e la parallela perdita di dignità) di diventare novelli parassiti, devono affrontare prove talmente impari da necessitare la prestazione di aiuti costanti da parte dei genitori per non cadere vittime della rabbia, prima, e della rassegnazione e dello sconforto, poi, sconfinando magari nell’evasione delle droghe, sperimentate dapprima a scuola e ritrovate poi ad libitum in discoteca.

Un mondo che non ti vuole, che ti sottovaluta, che si degna di avvalersi della tua opera a intermittenza e con compensi da fame è un mondo che non ti permette di pensare a un futuro, a una casa, a una famiglia, a dei figli. Questo è il mondo che abbiamo preparato per i nostri discendenti; e allora cerchiamo di sopperire, noi genitori o nonni, a quanto il “mercato” non vuole dar loro, intervenendo con parte di quel reddito di pensione o di risparmio, frutto del nostro precedente lavoro o di quello dei nostri avi. Un tempo il flusso di aiuti scorreva in senso inverso, ascendendo dai figli verso i genitori, i quali, in mancanza di meccanismi pensionistici, in vecchiaia erano costretti a dipendere dalla prole per la propria sopravvivenza. La seconda metà del secolo scorso s’era illusa di invertire questo stato di cose, con l’istituzione della pensione, intesa a conferire un’esistenza dignitosa a quanti, dopo una vita di lavoro, si ritiravano per limiti di età.

Questa lodevole istituzione, però, era nata nel presupposto che fossero i contributi versati durante la vita lavorativa a produrre i frutti necessari al conferimento della pensione, tenendo conto dell’età di pensionamento, dell’aspettativa media di vita e di dati demografici, se non in crescita, quanto meno costanti. Un presupposto che non ha trovato la minima applicazione, in quanto si chiede oggi ai giovani di provvedere al mantenimento dei loro genitori tramite i propri contributi pensionistici; i quali tuttavia sono progressivamente insufficienti: a) per il moltiplicarsi dei vecchi rispetto ai giovani; b) per la precocità dei pensionamenti in controtendenza all’allungamento della vita media; c) per il crescente numero di giovani disoccupati, sottoccupati o in misura crescente precari, ossia senza più l’obbligo di pagare i contributi previdenziali. Per inciso, i parlamentari pagano una ben misera fetta di quanto percepiscono, e alla svelta, in emolumenti pensionistici; quindi, i giovani d’oggi si vedono decurtare dalla busta paga anche i contributi necessari a pagare le pensioni d’oro di parlamentari, consiglieri regionali,  e di tutta la pletora pubblica che vive a nostre spese.

D’altro canto, se un giovane, non trovando occupazione, neppure precaria, è costretto a “crearsi” un lavoro autonomo, ingrossando le file delle partite Iva obbligate, i contributi che per legge gli si richiede di versare superano assai spesso le sue capacità di solvenza, incorrendo così nelle ire istituzionali, con intimazioni di pagamento, pignoramenti, fallimento.

Una situazione cui si perviene con maggiore probabilità se la giovane partita Iva ha dovuto ricorrere a prestiti bancari per l’acquisto di una licenza e/o di attrezzatura per lo svolgimento della sua attività.

Oltre all’INPS, il giovane se la dovrà allora giostrare anche con i crescenti appetiti della banca, ossequiosa verso ogni rialzo dei tassi e minacciosamente impaziente nei probabili casi di ritardati o mancati pagamenti. Per tacere della ridda di tasse e gabelle che lo Stato, composto da gente che non è minimamente toccata dai suoi problemi, motu proprio o dietro la spinta della sempre più fitta Gazzetta Ufficiale Europea, gli rovescia addosso sotto forma di imposte, espletamenti burocratici, sanzioni rovinose per omessi o difettosi adempimenti, controlli da parte da tutta una congerie di enti impositori di norme sempre più concettose, sempre più lontane dalla vita reale, sempre più assurdamente rapaci, oggi amplificate a dismisura ad es. da quel tam-tam quotidiano sulla  sicurezza sul lavoro, di cui ogni politico, e quindi ogni TG, ci riempie quotidianamente la testa. Sicurezza che poi si riduce a far ricadere sui cittadini normali e sulle piccole attività prescrizioni adottate in seguito a trasgressioni in campi completamente estranei, per dimensioni e per effettivi rischi, come cantieri edili, navali, acciaierie, catene di montaggio, etc. A pagare, come sempre, sono gli inermi. Per non parlare della selva di norme “anti-terrorismo”, per cui veniamo trattati tutti come potenziali bombaroli.

Identico discorso vale per i controlli fiscali, meticolosi e pedanti a carico di piccole aziende e professioni, quasi fossero covi di rapinatori dell’erario statale, regionale, provinciale, comunale. Le norme più idiote sono ormai tali e tante che richiedono dapprima il servizio di specialisti a pagamento per tentare di rispettarle, e poi eserciti di verificatori, che altro non sono che beneficiari di impieghi pubblici parassitari, la cui unica giustificazione non è l’applicazione delle suddette inutili o stupide norme, ma il mantenimento del loro stesso impiego: una vasta sottocasta di gente perlopiù arrogante e che si ritiene investita di ruoli di vitale importanza per la sana gestione dello Stato.

Il piccolo imprenditore, che tale è per scelta o, più spesso, per necessità, non ne può più del fiato sul collo di pubblici controllori, pronti a punirlo per ogni minima mancanza, anche nei confronti del magro personale che a stento possono permettersi, e che spesso guadagna più di loro stessi (i supposti evasori!), mentre vede grandi o medie aziende, persino pubbliche, dotarsi impunemente, direttamente o tramite aziende appaltatrici, di schiere di lavoratori precari senza i minimi requisiti che, non già la legge, ma un comune senso morale imporrebbe venissero applicati. Per non dire della concorrenza di ex-clandestini trasformati legalmente in cittadini comunitari e disposti a qualsiasi lavoro per qualsiasi paga.

A tutte queste storture, a tutti questi prelievi di sangue dalle vene dei nostri giovani non pensa minimamente lo Stato, che si ricorda di loro solo per dissanguarli, bensì i vecchi genitori, rinunciando a parte di quella pensione che si sono pagati con una vita di lavoro, o gli ignari defunti che hanno previdentemente lasciato dei beni ai loro discendenti. Ci siamo così trasformati in una nazione che vive di rendita, che sgretola il patrimonio avita per cederlo progressivamente ai figli di altri popoli, che si approprieranno della nostra ricchezza, scalzando le nostre residue tradizioni, la nostra lingua, la nostra cultura.

Eppure, lo Stato saprebbe dove prendere quei soldi che perennemente gli mancano e che mettono alla frusta le nuove generazioni: nelle capienti casseforti del sistema bancario, che glieli ha scippati senza tanta pubblicità attraverso tutti gli scorsi decenni (e secoli), prestandogli carta straccia in cambio del frutto del sudore dei suoi cittadini, e caricandoci persino gli interessi. Ma non lo fa, perché col sistema bancario è connivente, perché è grazie a questo sistema che lorsignori occupano i posti di privilegio cui sono tanto attaccati.

Se la Lega, in cui ho in un recente passato riposto una certa fiducia, non la smette di concentrarsi ossessivamente sulla chimera del federalismo, che non farebbe che moltiplicare per il numero di Regioni i problemi di uno Stato disastrato dalle banche, come le elefantesche spese di questi enti periferici stanno a documentare, e si focalizza invece sulla vera rapina di Roma ladrona, permessa in virtù dell’accordo occulto con la lobby finanziaria globale, perderò anche l’ultima speranza che l’Italia riesca mai a sollevarsi dal buco nero in cui è sprofondata. E dovrei obtorto collo dar ragione a Marco Della Luna, che nel suo ultimo pamphlet “Basta con questa Italia” pone il dilemma tra secessione, rivoluzione o emigrazione.  

Marco Giacinto Pellifroni                     20 aprile 2008