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SVILUPPO/GIUSEPPE OZENDA REPLICA  A  PELLIZZETTI

Il mondo verso il futuro:
il cammino di una piccola città

 

Giuseppe Antonio Ozenda di Carpasio

 


Giuseppe Antonio Ozenda di Carpasio

nel calendario anticemento

 Mi si perdoni, ma la recente graziosa citazione della città in cui sono nato ( Savona ) in un corposo articolo dell’ami de plume P.F.Pellizzetti ...LEGGI... mi provoca il desiderio irrefrenabile di intervenire.

Sia chiaro: condivido gran parte dell’articolo, ove si richiamano vagamente temi inclusi in qualche mio testo già pubblicato e che oggi sono comunque inevitabilmente noti a chi riflette sulla sorte di questo nostro travagliato pianeta.

 Non so adoperare con eguale disinvoltura vocaboli semanticamente corretti ma forse ridondanti, come “ossimorico” o “apparatizza”; non ho il periodare spezzato e scoppiettante ( come una gragnuola di fuochi d’artificio da Ville Lumière tanto cara all’autore ) che rende a volte ardua la lettura; non ho nemmeno il gusto per la continua citazione di mollichine di testi altrui (quasi da bulimico bibliotecario che memorizza risvolti di copertina durante il lavoro), che, esibite forse come patenti di credibilità, non modificano l’innegabile apprezzamento per l’articolista. Ho comunque gradito l’excursus filosofico-sociologico fra i vari teorici di nuove visioni del mondo, un fiorito “bignami” utile anche per chi come me si aggira da tempo operativamente nel labirinto di questi temi. Nonostante la simpatia estetica, non condivido però il tono sussiegoso e vagamente sprezzante (ma forse questa è una cifra stilistica del personaggio) con cui vengono tranciati certi giudizi apodittici. Non essendo giornalista, mi limito ad esporre gratuitamente qualche riflessione, sforzandomi di tacitare l’inguaribile causticità da ligure stagionato.


Pierfranco Pellizzetti


James Lovelock

Non so quanto giovi continuare a far derivare la politica ( ovviamente intesa in senso etimologico e non solo come banale campionato dei partiti ) prevalentemente dalla sociologia ( nelle varie declinazioni ideologiche ) legando poi quest’ultima all’economia. Ho la sensazione che se oggi non si recupera prima di tutto il senso del posto dell’Uomo nella Natura non ci sia scampo per l’umanità (a quanto pare, gli insetti sopravviveranno comunque)

Credo che la desacralizzazione illuministica del rapporto uomo-natura dovrebbe oggi evolvere nella ricerca di una nuova alleanza (ricordando Konrad Lorenz) frutto soprattutto di nuove conoscenze scientifiche piuttosto che di grette valutazioni economico-finanziarie (già Karl Polanyi sottolineava la “innaturalità” del cosiddetto mercato). Le analisi contemporanee sullo stato del pianeta ed il destino dei suoi inquilini nonchè le ipotesi su vie di fuga possibili non sono quindi solo spunti per chiacchiere da bar. Se le visioni dei futurologi degli anni sessanta (dal popolano all’intellettuale) erano in parte frutto solo di una vaga sensibilità, forse semplici embrioni concettuali, l’analisi scientifica o para-scientifica successiva ha apportato elementi più convincenti al dibattito complessivo sul futuro prossimo dell’umanità, grazie anche - perché no? - al contributo di catastrofisti, negazionisti, possibilisti, ...

Da tempo la fetta occidentale dell’umanità si è convinta di trovare nell’artificio (di cui l’industrialismo è una derivazione operativa) la soluzione al problema del superamento dei propri limiti, pensando che la tecnosfera fosse una dimensione esterna rispetto alle quattro (o più) del mondo visibile, nella quale aggirarsi senza condizionamenti. La Terra, però, intesa come un’unica realtà vivente (l’ipotesi di Gaia, di James Lovelock) ci pone di fronte ai limiti di tempo e di spazio che ha qualunque essere vivente (o aggregato di viventi) e che si possono sintetizzare nel concetto di capacità portante: se l’impronta ecologica di una comunità supera la capacità portante del suo contesto ne determina il degrado e quindi la propria dissoluzione. Come esempio terrificante cito il “modello Isola di Pasqua” di cui mi servo spesso.

Come è noto, la Natura limita le popolazioni di viventi (fauna e flora) secondo precise leggi di rapporto col contesto: aver forzato queste leggi (per esempio prolungando la durata della vita con complesse terapie, imponendo la sovraproduzione di alimenti in ambiti limitati o prelevando risorse naturali oltre il limite della capacità riproduttiva, e considerando ciò fatti positivi) ha creato squilibri insopportabili a lungo termine. La limitazione della popolazione non solo in assoluto ma anche della sua densità locale dovrebbe essere un obbligo irrinunciabile ancor prima di porsi il problema del risparmio energetico o del significato del lavoro (Provoco: il lavoro vero è solo quello del dipendente preferibilmente in una grande azienda?).

Tuttavia la percezione dell’economia (e delle sue degenerazioni) come sottoinsieme dell’ecologia pare essere una visione riservata a pochi. Amartya Sen con la sua critica alla società del benessere ha messo in luce le molte criticità del modo di vivere globalizzato mentre Nicholas Georgescu-Roegen con la sua dottrina dell’economia ecologica (o bioeconomia) ha suggerito qualche possibile percorso di salvezza.

Ma i potenti, dagli “Illuminati” ai piccoli feudatari locali, o certi intellettuali sembrano ignorare tutto ciò, pensando che solo l’accumulazione di monetine luccicanti indichi la strada per la felicità perenne o almeno ne simuli gli effetti, come una droga. Mi pare perciò inutile la distinzione fra chi vince e chi perde, perché i ruoli sono continuamente intercambiabili all’interno dello stesso campo di gioco, la biosfera, in cui le regole – ahimè - restano immutabili. La termodinamica non perdona gli errori: ce ne stiamo accorgendo. 

Il sussidio entropico è una truffa i cui conti si pagano a scadenze neanche troppo lunghe.


Torre Bofill

Confesso che ogni tanto mi chiedo se sia davvero giusto occuparsi di chi verrà dopo di noi, in una visione escatologica che pretende di assegnarci una responsabilità forse esagerata: tuttavia mi rispondo che se la domanda è inutile, è però inevitabile preoccuparsi di quanto succede nel periodo della nostra vita ed è ragionevole pensare almeno ai discendenti immediati.

Per questo credo anch’io che il campo d’azione ottimale per chi voglia migliorare la situazione sia probabilmente solo quello della comunità in cui si vive, di cui si ha la percezione ed su cui si può avere qualche influenza (era una delle proposte finali di Erich Fromm in Avere o essere): i confini di questo ambito locale (ecosfera) sono difficilmente definibili con precisione (certo non si identificano con quelli amministrativi), ma la sommatoria (o l’integrazione) di tanti piccoli tasselli forse fornirà la soluzione generale. Chissà.

Comunque, se ammettiamo che elaborare soluzioni locali ai problemi generali e decidere la loro rapida realizzazione sia necessario per consentire una qualità della vita decente - senza cadere nel minimalismo della rassegnazione e superando il bricolage urbano - l’elaborazione condivisa di scelte strategiche per la propria evoluzione da parte di una comunità dovrebbe essere il fondamento per la loro attuazione. Può capitare invece che il potere decisionale talvolta sia concentrato in qualche èlite non particolarmente illuminata e porti a scelte la cui vantaggiosità per tutti sia opinabile. In tal caso la reazione di nativi snob accanto a quella di numerosi comitati di contrasto che testimoniano il disagio diffuso mi pare pienamente giustificata, anche se inconcludente. Purtroppo però la dissoluzione culturale e l’attuale crisi della democrazia rappresentativa per ora non permettono di attivare nuove procedure per la formazione delle decisioni (per esempio la consultazione capillare della popolazione attraverso strumenti telematici).

Un tipo di reazione forse più efficace è il tentativo, da parte di nuclei di volonterosi competenti, di progettare il futuro del territorio ad un livello di scala adeguato (provinciale o distrettuale) mobilitando le risorse necessarie, per sottoporre poi il risultato alla valutazione dell’intera comunità, senza rivolgersi a mummificate istituzioni o a qualche feudatario locale per impetrarne la condiscendente approvazione.

A Savona succede anche questo. Velleitario dilettantismo? Benaltrismo perfettista? Fantasie da epigoni sessantottini perdigiorno? Oppure un embrione di quella nuova politica che molti sembrano auspicare?

Se la nuova politica (evito il termine neo-politica che mi richiama il Grande Fratello orwelliano) deve nascere da una nuova visione della socialità e dell’economia (quindi ecologica) senza per questo essere utopica, forse non deve necessariamente passare attraverso una trasformazione graduale “all’interno delle coordinate tracciate dal capitalismo”. Evito l’aborrito termine decrescita, ma proporre l’uso razionale dell’energia, l’alimentazione intelligente, sottolineare l’importanza delle reti di relazioni personali ed altro significa proporre idee per la soddisfazione di esigenze concrete, quindi immediatamente percepibili anche dalle persone comuni. La capacità di comunicazione che le reti telematiche oggi consentono è un elemento che viene tuttora sottovalutato (gli economisti classici ovviamente lo ignoravano) ma i cui effetti sulla dinamica dei comportamenti di massa è probabilmente ancora poco conosciuto, anche dagli esperti di marketing: le nuove idee potrebbero diventare nuovi paradigmi di una rivoluzione incruenta più rapidamente di quanto si creda. Si pensi a B.Grillo. Forse sarebbe meglio prepararsi, anziché ironizzare.

Non sono affatto convinto che la crisi europea si esorcizzi lasciandosi sedurre dai momentanei successi operativi di qualche città che perciò viene immediatamente assunta come modello planetario. Occorrerebbe chiedersi se tali modelli siano replicabili altrove, nonostante apparenti similitudini di contesto geomorfolgico o socio-culturale, spesso solo presunte. Se si cita la Catalogna, per esempio, pur avendo meritoriamente sottolineato l’elaborazione preventiva di un piano strategico locale di medio-lungo periodo, non si può evitare di ricordare, oltre ad altri aspetti, anche la gestione particolare della fiscalità.

Come esempio di trasformazione, tra l’altro, in Italia non mi pare trascurabile il caso di Torino. 

Per quanto riguarda Savona, città marginale ed in crisi di transizione, non condivido invece l’idea che una semplice semina urbana di fabbricati “grandi firme” possa essere per se stessa motore di sviluppo.

Da tempo, infatti, la comunità della provincia di Savona sperimenta una profonda crisi di identità, cioè non solo economica ma soprattutto socio-culturale, che non pare essere ancora in fase di superamento.

Mentre nugoli di vecchi e nuovi politicanti si impegnano in operazioni di cosmesi partitica sgomitando per ottenere qualche effimero privilegio, la business community aggregata intorno all'Autorità Portuale (che negli ultimi anni pare aver surrogato il potere decisionale di qualunque altra istituzione provinciale) condiziona la gestione del territorio: chi non appartenga al ristretto gruppo degli attuali decisori o si consola protestando o si accontenta di occuparsi di attività marginali, disputandosi briciole di potere o di reddito.

In questo regime neo-feudale, gran parte della popolazione sembra prigioniera di una specie di torpore intellettuale (esito anche di mummificazione ideologica e di abili campagne mediatiche) da cui qualche volonteroso giornalista si sforza di risvegliarla con raffiche di notizie che evidenziano i problemi e ne denunciano le responsabilità; intanto un’altra parte – solo apparentemente più vispa - continua ad aggregarsi in gruppi ideologicamente variopinti, ma purtroppo per continuare a ripetere (come Eugenio Montale) “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” o per mendicare qualche voto cavalcando la protesta.

In realtà paiono purtroppo sopiti i vivaci fermenti culturali che spesso in passato hanno animato le dinamiche sociali della comunità, oggi visibilmente rassegnata alla monocultura dell’indolenza e del conformismo, ed apparentemente soggetta ad una specie di coprifuoco dell’intelligenza. Forse per tutto questo negli ultimi decenni molti “indigeni” (soprattutto giovani brillanti) si sono trasferiti altrove, riducendo così il numero dei residenti (la cui età media è quindi notevolmente aumentata), con ovvie conseguenze.

La mia visione della disgregata e rissosa società savonese è insomma quella di una comunità insoddisfatta del presente ma incapace di passare ad una fase di sintesi di idee e desideri nella quale si definisca concordemente un progetto di futuro; a questo contribuisce anche l’assenza di validi strateghi – cioè autentici politici e non politicanti – che la guidino, oggi artificiosamente sostituiti da alcuni tecnici, anche se di buon livello, con modesti risultati amministrativi e con obiettivi progettuali discutibili.

Con i “partiti” ormai trasformati in tristi agenzie di collocamento dei propri adepti, il dibattito politico, non più inteso come momento di elaborazione intellettuale e di sintesi decisionale, è ridotto ad occasione di scontro fra tifoserie, gelose della propria “identità” (ma quale?) e la cui attenzione, fissata paranoicamente su questioni particolari, maschera l'incapacità di gestire il presente e progettare il futuro con una visione di sistema. Già, "sistema", parola greca che mi piace tradurre come "com-posizione" (collocazione razionale nello spazio di elementi diversi) per evidenziarne il significato in ambito musicale: ciò che si ascolta oggi nel savonese non pare affatto essere la "musica delle etterne rote", ma piuttosto il rumore fastidioso e preoccupante di un vecchio motore sbiellato tirato fuori-giri.

Tornando al tema dell’edilizia, penso che ogni edificio particolare possa avere significato (funzionale o rappresentativo) se è espressione di valori condivisi (come, per esempio, floridezza economica o prestigio culturale) e non quando ne è una dissimulazione: altrimenti ricorda certe sequenze di film western in cui nella via principale si vedono solo facciate dipinte sostenute da impalcature retrostanti. Insomma, nel caso savonese la semplice presenza di costruzioni eclatanti configurerebbe solo una caricatura di città.

Lugano è ricca di edifici disegnati da Mario Botta (che - guarda caso - vi è nato), ma lassù il decoro urbano corrisponde ad uno stile di vita ed a una densità di monetine nei forzieri bancari locali non da poco.

Invece non so quale corrispondenza si immagini fra le dinamiche socio-culturali locali o la spinta propulsiva imprenditoriale dei nostri concittadini e tali episodi architettonici: pur senza essere un anti-modernista o un “ambientalista becero”, sospetto che questi rischino di diventare soltanto ambigue espressioni totemiche oppure narcisistici monumenti agli autori delle opere, essendo un business solo per i costruttori.

Lo sciato è un vizio dei nativi che non si elimina facilmente, ma nemmeno il culto della profittabilità.

Neanche il mugugno. Evito perciò di commentare la qualità estetica degli edifici già realizzati, la cui percezione è estremamente soggettiva: per questi (e per altri solo ipotizzati) mi limito a dubitare del loro significato strategico nello spazio urbano, cioè del rapporto fra funzioni e collocazione, nonché - condizionato dalla mia formazione ingegneristica - delle soluzioni tecniche adottate nella realizzazione (penso per esempio al dispendio energetico – in assenza di opportuni espedienti - di volumi interamente vetrati).

Lascio poi a dietrologi di professione il compito di investigare la stupefacente analogia fra la coppia di edifici torreggianti (Grattacielo di piazza L.Pancaldo e Torre Orsero) posta all’ingresso orientale della città e le due colonne (Jackin e Bohaz) che normalmente costituiscono l’entrata di un Tempio Massonico.

Perfida volontà di qualche emissario locale del Consiglio dei Trentatrè? Sto esagerando. So che sono solo fantasie di qualche suddito “frustrato e rancoroso”. Speremu

Passando ad un altro tema, non riesco a considerare nemmeno il traffico crocieristico come straordinario motore di sviluppo per la città di Savona. Ammetto di essere prevenuto, perché, avendo avuto un padre ufficiale di Marina, ho sempre percepito l’andar per mare come fatica e sacrificio e quindi ho difficoltà ad apprezzare la crociera, soprattutto di massa, come forma di vacanza: mi pare solo un’illusione abilmente venduta, dato che per qualcuno (per sua stessa ammissione) si trasforma poi in un temporaneo martirio (chissà se la parola deriva da mare…) che non lascia dopo lo sbarco i rimpianti agitati da certi spot pubblicitari… Mettendomi però nei panni di chi sta a terra, non so quanto sia gratificante per una città essere nota solo perchè terminale di imbarco. Forse baristi e venditori di chincaglierie si accontentano di parassitare turbe transitorie di croceristi, considerando la loro fugace presenza come un’opportunità da cogliere leccandosi le dita, come indigeni polinesiani devoti al culto del cargo: ma tutti gli altri cittadini?

In realtà il passaggio periodico di ingenti flussi di persone - anche se di livello economico non particolarmente elevato - potrebbe essere considerato come un’occasione per agganciare potenziali futuri ospiti del sistema turistico locale, in una strategia di marketing dell’intero territorio. Sarebbe interessante se i pochi creativi rimasti in città e nel circondario non contagiati dal pensiero unico individuassero alcuni elementi peculiari (oltre il classico set reliquiario Duomo \ Cappella Sistina \ Pinacoteca \ Priamàr) da proporre come nuovi attrattori originali del territorio a turisti evoluti, e non accettassero invece rassegnati di vedere la città ridotta a spazio di transito per greggi di vacanzieri marinareschi. Ma attenzione: che cosa si otterrebbe? Considerando solo un aspetto del problema, quale sistema di accoglienza sarebbe disponibile se anche solo una parte del target decidesse di rispondere positivamente all’invito? Ahi, ahi, ahi ! 

Riflettendo, comunque, mi accorgo che entrambi i campi di attività citati (edilizia residenziale e crocierismo) attengono a quello spazio dell’effimero che fa dell’immagine e del sogno il vero motore reddituale: l’esaltazione della loro funzione salvifica per il savonese mi pare solo espressione di una desolante banalità progettuale. La futilità eretta a valore: garanzia di futuro ? Mah !?

 Non mi stupisce invece l’assenza nell’articolo di riferimenti a quella che viene pervicacemente postulata da qualche oligarca locale come una sicura opportunità: la portualità commerciale.

Forse ci si è accorti che anche questa opzione, come dimostrato ripetutamente in numerosi convegni da esperti indipendenti, è poco credibile per Savona-Vado: perchè circa metà delle merci movimentate sono oli minerali sbarcati da navi che attraccano in un parco boe ed i tre quarti sono costituite da combustibili fossili; perché gli ipotizzati flussi di contenitori (nuova pietra filosofale?) sono solo teorici in assenza di adeguate infrastrutture di deflusso, peraltro di difficile realizzazione; perchè il contesto geomorfologico non permette di pensare ad un sistema integrato porto-retroporto veramente redditizio. Insomma perché per un piccolo approdo portuale una strategia megalomane di sviluppo in uno scenario mondiale è solo frutto di wishful thinking, data la prossimità di realtà portuali già pienamente attrezzate e funzionanti come Genova o ancor più Marsiglia e Barcellona.

Alcuni si illudono e magari si ostinano a progettare faraoniche infrastrutture che però comportano un pesante asservimento del territorio e, come al solito, sono redditizie solo per i costruttori: ma ormai non tutti sono ciecamente convinti che quanto deciso colà dove si puote ciò che si vuole sia davvero la migliore ricetta per la salvezza della comunità anzichè solo un modo per inseguire finanziamenti da condividere fra amici degli amici. E le reazioni non sono mancate.

Mi chiedo invece perché si taccia la presenza in porto di due prestigiosi cantieri navali per l’allestimento di naviglio da diporto di alta classe, pensando a ciò che questo, accantonando pregiudizi classisti e nostalgie passatiste (nonchè traffici di carbone e laminati) potrebbe significare per la configurazione di un sistema portuale dedicato interamente ai servizi al turismo: forse perché da lì può arrivare un vero impulso?

E qui è arrivato il momento di tirare fuori qualche asso dalla manica.

Se si identifica lo “sviluppo” non con il rozzo esito del culto della profittabilità ma con il continuo tentativo di armonizzare necessità ed opportunità di una comunità insediata in un territorio, per superare la crisi del savonese credo che sarebbe indispensabile coordinare attività economiche e culturali della provincia osser­vando risorse disponibili e potenzialità in una visione sinottica, alla luce di un principio ispiratore unifi­cante che permetta di interpretare con spirito innovativo le tendenze più attuali.

Volendo pensare davvero al futuro della nostra comunità (non preoccupandosi solo di gestire senza scosse elettorali il prolungato transitorio di adattamento), occorrerebbe progettare creativamente attività tra loro correlate che si valorizzino reciprocamente, in modo tale che il valore aggiunto complessivo sia maggiore della somma dei diversi contributi considerati singolarmente.

Tali attività strategicamente equipollenti (e quindi non corollari di una prevalente) dovrebbero derivare da un’analisi delle caratteristiche del territorio privilegiando quelle che possano essere oggi considerate elementi di vantaggio competitivo.

Per questo non occorre attendere i frutti di cittadelle dell’innovazione o pareri di think-tank condizionati.

Infatti, senza sconfinare in visioni new-age, pare oggi sempre più evidente che operare in armonia con i cicli naturali costituisce la più attraente e forse ormai imprescindibile opportunità di crescita culturale e di produzione di reddito con ini­ziative di qualunque tipo (non soltanto il pretesto per ottenere qualche “certificazione ambientale”, spesso puramente formale). Le condi­zioni geografiche (mare profondo, colline a ridosso della costa, vento costante, insolazione annuale ele­vata) ed infrastrutturali (attrezzature ricettive e sanitarie, comunicazioni, ecc.) della provincia sarebbero già tali da assicurare una buona qualità di vita a residenti ed ospiti. Poiché però il fascino di una città e di un territorio non deriva solo dalla contemplazione passiva delle sue bellezze naturali o artistiche, ma anche da attività innovative ad alta redditività che non condizionino l’ambiente e non ne impediscano usi diversi in futuro, si costituirebbe un formidabile at­trattore imprenditoriale e culturale se si dimostrasse la possibilità di coesi­stenza armonica fra settori economici diversi. Se i nostri decisori non fossero distratti, si accorgerebbero che sperimentare l’applicabilità di tali concetti (programmandone l’attuazione anche con l’aiuto della lo­cale sede universitaria), insegnarne i principi e divulgarne i risultati potrebbe generare molte nuove opportunità.

Sono volutamente elusivo perché voglio ricordare che esiste un dettagliatissimo progetto-cornice (opera di un gruppo di indigeni infervorati, tra cui il sottoscritto) secondo cui la provincia di Savona, definita alla fine degli anni ottanta “area a rischio di crisi ambientale”, potrebbe trasformarsi in esempio applicativo di riconversione territoriale come spazio di proficua sperimentazione delle idee appena esposte. Per gli appassionati del genere, faccio notare che il “modello Savona” potrebbe affiancarsi al “modello Bolzano” ormai molto noto in Italia come esempio di evoluzione culturale e crescita economica.

 Mi fermo qui.

La realpolitik non può abolire l’intelligenza: il mio è quindi un messaggio di speranza, non un sogno. 

Ricordo al mio simpatico amico baffuto che Davide vinse Golia.

 Giuseppe Antonio Ozenda di Carpasio

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