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SICUREZZA vs. RISCHI

di Marco Giacinto Pellifroni

 Anche i meno avveduti avranno notato che, in puro stile Ventennio, quando il governo si appresta a varare qualche legge di largo impatto, la fa precedere da una propaganda mediatica volta a catturare l’incondizionata approvazione popolare. I due casi più recenti e vistosi sono stati: dapprima la legge sulla sicurezza stradale, mostrando quotidianamente in TV incidenti automobilistici dovuti a guidatori ebbri o ubriachi; e nelle recenti settimane le cronache di morti sul lavoro, con tanto di successivi funerali e relativi bagni di folla. E’ sembrato che tutti gli incidenti stradali e l’infortunistica, che pure le statistiche testimoniano aver sempre luttuosamente accompagnato la nostra civiltà, basata sull’autofilia e i cantieri, specie edili, fossero una recente novità. Non c’è giorno che non si inneggi, da politici, Confindustria e sindacati, alla sicurezza.

Quanto sopra, non per fare del cinismo, ma per porre in evidenza quanto sia contraddittorio invocare un’astratta sicurezza, nel tentativo di eliminare il rischio dalla nostra esistenza, senza fare i conti con i costi che questa impari lotta comporta e senza agire sulle cause della aumentata insicurezza.

Comincerò il mio ragionamento affermando che quanto più una società diventa matura tanto più tende a incrementare le pretese di sicurezza tout court e di tutela delle sue componenti improduttive. Crescono le garanzie sanitarie pubbliche, scende l’età di pensionamento (mentre la popolazione invecchia), si pongono vincoli sempre più stringenti ad ogni attività lavorativa o ludica. Si fanno insomma sempre maggiori scommesse contro il nemico pubblico numero uno: il rischio. Ma, al pari di una polizza assicurativa, i premi da pagare crescono di pari passo alle pretese di una sicurezza assoluta, che punta in prospettiva ad un’utopica sconfitta della morte. Tutto finisce col costare di più, in quanto i margini di profitto dei produttori si ridurrebbero sino a diventare perdite qualora i prezzi delle merci prodotte non si adeguassero a tutti i benefici richiesti per la salute, l’incolumità e la spensierata vecchiaia dei cittadini. Poco per volta, la civiltà diventa, più che matura, senile. Volendosi garantire contro ogni genere di avversità, ciascuno scorge minacce da ogni parte, reali o enfatizzate dai media, i quali vivono spesso sulla paura della gente. Si diventa così non più una società ma un conglomerato di individui impauriti e cagionevoli: vecchi sia fuori che dentro.

Una simile società, terrorizzata da un futuro popolato di mille pericoli, contro cui assicurarsi, è una società estremamente costosa; ed esposta alla concorrenza di società “barbare” che danno poco peso alla vita e affrontano i pericoli a petto nudo. Già sarebbe vacillante la sopravvivenza di una simile, cagionevole civiltà, nell’ideale caso di un suo isolamento dal mondo; ma diventa precaria, se non decisamente perdente, in un mondo aperto dove sia chiamata a confrontarsi coi “barbari”, la cui minaccia si esplica attraverso crescenti flussi migratori e commerciali.

Nessuno avrà difficoltà ad individuare nell’Occidente “avanzato” la società dalle mille assicurazioni, dalle mille leggi di tutela, dalle mille guarentigie, di contro a un mondo dove l’aggettivo “barbaro” diventa sinonimo di coraggio o, più propriamente, di temerarietà, in tutte le accezioni del termine, compresa la mancanza di scrupoli in ogni campo della sua baldanzosa lotta per la supremazia, fino alla pura spietatezza.

Il tragico, e paradossale, è che noi abbiamo fornito ai nuovi “barbari” tutte le agevolazioni per permetter loro di danneggiarci, soprattutto incoraggiando, con la delocalizzazzione delle nostre industrie sui loro territori, una concorrenza sleale con le aziende rimaste in patria. Noi vogliamo processi industriali sicuri, non inquinanti, lavoratori protetti e con salari al passo col lievitare del costo della vita? Verificatine i costi proibitivi, specie per l’ingordigia di uno Stato che alleggerisce salari, stipendi e pensioni per mantenere una pletora di suoi tutelati dipendenti, abbiamo seguito due strade parallele, creando un esercito di precari, italiani e stranieri, ai quali nessuna sicurezza è garantita, e trasferendo la produzione delle nostre merci verso Est, dove il nucleare, il carbone, la devastazione del territorio e la riduzione in schiavitù fin dall’adolescenza sono accettati da governi indulgenti e mirati a trasformare le masse contadine in copie dei nostri operai di un tempo e poi dei nostri colletti bianchi di più recente memoria..

Guardiamo quindi agli USA, nostro pesce pilota. L’insensata politica di trasferimento della créme industriale oltreoceano li ha trasformato in fornitori di servizi, sempre meno avanzati, a fianco di servizi finanziari che, lasciati a se stessi da una deregulation voluta e conseguita come l’unica norma di mercato, si sono votati al disastro, trascinando con sé miriadi di lavoratori gettati sul lastrico e quindi paradossalmente privi di quella sicurezza che si presupponeva essere il primo obiettivo della nazione.

Ora le residue attività sono in vendita al miglior offerente straniero; mentre più nessuno degli antichi acquirenti di azioni (e persino di buoni del tesoro americano) osa più farsi avanti, se non a prezzi di realizzo, con un dollaro che crolla ad ogni ora che passa, spinto all’ingiù non solo dai continui tagli dei tassi, ma anche dagli acquisti da parte della Fed *, di titoli della finanza strutturata, ossia spazzatura, contro titoli del tesoro americano ($ 200 miliardi pochi giorni fa). Per chi ha in tasca euro ogni bene americano è oggi scontato del 35%; e domani sarà ancora più cheap. Di questo passo, gli USA, da grandi importatori di merci dai paesi asiatici, finiranno col diventare i “poveri” di turno, esportando a rotta di collo grazie ad una moneta ipersvalutata e al moltiplicarsi di mini-salariati: ciò che han fatto sino ad oggi India, Cina e stati limitrofi. Pur di esportare, gli USA finiranno col dire addio alle loro sicurezze, conquistate con decenni di lotte sindacali, anti-razziste e ambientali, in una prospettiva di ruoli invertiti con gli attuali esportatori. La decennale resistenza alla firma del protocollo di Kyoto la dice lunga sul brivido nella schiena degli americani a mettersi il bavaglio della protezione ambientale in un pianeta dove due miliardi e mezzo di produttori asiatici si guardano bene dal rispettarlo. Insomma, una corsa collettiva al suicidio, non solo economico, ma anche umano e ambientale.

E l’Italia? Noi ci troviamo in uno stadio intermedio tra i due estremi, con una valuta talmente forte che sta mettendo all’angolo le nostre esportazioni, mentre le norme di sicurezza sul lavoro e ambientali, se rispettate, non faranno che accentuare la decrescente competitività delle nostre merci e la migrazione verso paesi ospitanti più “comprensivi”, dai quali importeremo sempre di più. Se abbiamo cominciato esportando beni ad alto valore aggiunto, finiremo con l’importarli, limitandoci all’industria del turismo, della ristorazione e dell’intrattenimento: Sua Emittenza, cantante ed immobiliarista Berlusconi incarna perfettamente questi variegati ruoli.

In simile scenario, non è certo facile additare ragionevoli ed attuabili vie d’uscita. Ciò che la “vecchia Europa” deve digerire è l’equazione introduttiva di queste pagine, e cioè che maggior sicurezza, in ogni campo, dalla pensione al posto di lavoro, dalla centrale elettrica ai gas di scarico veicolari, comporta maggiori costi, che la società è ineludibilmente chiamata a pagare. Una società super-tutelata, con pensionati a 58 anni, centrali elettriche a gas, auto a basse emissioni, etc. è una società che non è in grado di competere con altre dove tutto questo è considerato un lusso. Una società peraltro spaccata in due, dove una parte gode dei benefici della sicurezza, ma a spese dell’altra, precaria e in crescita, che di sicurezza sente solo parlare.

La società occidentale, quanto era “affluente”, s’era illusa di poter aprire le frontiere in tutte le direzioni e di potere, ciononostante, mantenere il proprio standard di vita a spese delle nazioni all’epoca emergenti. Quando sono arrivati i conti da pagare, in termini di decrescente competitività, dovendo scegliere tra mantenimento o riduzione del proprio standard di vita (in primis, la sua senile fobia dell’insicurezza, nel lavoro, nell’ambiente, nell’alimentazione, ecc.), ha creduto di poter scegliere la prima strada.

In conclusione, un euro sempre più forte (grazie ad un minor coinvolgimento nelle follie della finanza strutturata americana), unito ai viepiù invocati standard di sicurezza, renderà l’Italia sempre meno competitiva, costringendola o a varare misure di isolamento mediante dazi doganali o ad allentare le misure di sicurezza. Non credo potrà evitare sia l’una che l’altra strada; anzi, può darsi che dovrà adottarle entrambe, mentre resterà comunque aperta la sua dipendenza dall’estero per le materie prime, specie energetiche; a meno che chiuda le sue industrie e si dedichi all’esclusivo ricevimento di ospiti russi, cinesi et sim., tornando all’ancestrale vocazione di Bel Paese da cartolina.

* Rimando ai quotidiani, interessantissimi articoli di Marco Sarli sul suo blog: http://diariodellacrisi.blogspot.com. Il titolo dell'ultimo commento, in data 15/03/2008, è molto eloquente: "The sooner you leave, the better, Mr. Bernspan!". Ossia, prima te ne vai e meglio è. Bernspan fonde il nome dell'attuale governatore della Fed (Federal Reserve, la Banca Centrale USA), Bernanke, con quello del suo predecessore, Greenspan, entrambi fautori di una scellerata politica di espansione del credito e conseguenti bolle finanziarie, responsabili dell'attuale recessione.

  

Marco Giacinto Pellifroni                                                                        16 marzo 2008