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DI €HI SONO I $O£DI?

di Marco Giacinto Pellifroni

Siamo in piena campagna elettorale; una campagna in cui i due maggiori partiti si accusano a vicenda di copiarsi il programma. Ma invano cerchereste in questi programmi gemelli gli argomenti di cui parleremo qui oggi. Né miglior fortuna avreste andandone alla ricerca nei programmi delle coalizioni minori e neppure dei singoli “partitini”. Questo è grave, in quanto l’economia è alla base della prosperità di una nazione, e partire verso 5 anni di governo sulla base di un’economia profondamente distorta e fallace, senza che nessuno tenti di additarne i mali di fondo, non è una buona partenza.

Detto questo, voglio premettere che non sono un economista in senso accademico. Forse però questo mi ha aiutato a pormi delle domande elementari, quale quella che dà il titolo a questa conversazione, senza cadere nelle elucubrate e sempre più complesse risposte che l’economia ufficiale, ormai tramutatasi in finanza strutturata, dà ai non addetti per confondere le acque a proprio esclusivo vantaggio.

Dunque, “di chi sono i soldi”? Il cittadino comune, educato secondo la visione corrente, risponderebbe che sono dell’emittente: Banca d’Italia sino al 2001, e BCE d’allora in poi. E così ha sostenuto, ovviamente, anche la stessa Banca d’Italia in una famosa vertenza sollevata dal prof. Giacinto Auriti, Ordinario di Filosofia del Diritto e di Diritto Internazionale proprio al riguardo delle proprietà della moneta. Vertenza conclusasi con una pesante condanna del professore, tra le cui imputazioni di reato richieste da Bankitalia era persino quella di “lite temeraria”. Vediamo succintamente cosa sosteneva il prof. Auriti e cosa controdedusse Bankitalia SpA.

Prof. AURITI: Quando la moneta era convertibile in oro, la banca centrale poteva ritenersi proprietaria della moneta in quanto proprietaria della riserva. Con l'abolizione della convertibilità e della stessa riserva (15 agosto del 1971), la banca centrale non è più proprietaria della moneta. Continua tuttavia a comportarsi come tale perché emette moneta prestandola: mentre dovrebbe accreditarla alla collettività nazionale perché è questa che, accettandola, ne crea il valore.

BANKITALIA: …i biglietti appena prodotti dall’Officina Fabbricazione biglietti della Banca d’Italia costituiscono una semplice merce di proprietà della Banca centrale, che ne cura direttamente la stampa e ne assume le relative spese. Essi acquistano la loro funzione e il valore di moneta nel momento, logicamente e cronologicamente successivo, in cui la Banca d’Italia li immette nel mercato, trasferendone la relativa proprietà ai percettori. […] La moneta viene [quindi] immessa nel mercato in base ad operazioni legislativamente previste e disciplinate, a seguito del compimento delle quali la Banca d’Italia cede la proprietà dei biglietti, i quali, in tale momento, come circolante, vengono appostati al passivo nelle scritture contabili dell’Istituto di emissione, acquistando in contropartita, o ricevendo in pegno, altri beni o valori mobiliari (titoli, valute, ecc.), che vengono, invece, appostati nell’attivo.

Molto schematicamente, in queste due asserzioni sta il nocciolo dell’intero problema.

Secondo Auriti, e con lui molti autorevoli pensatori (primo fra tutti il poeta Ezra Pound, che pagò a caro prezzo le sue idee), la banca centrale era autorizzata a cedere allo Stato banconote contro titoli del Tesoro (BOT, BTP, ecc.) soltanto fino a quando vigeva la convertibilità delle prime contro equipollenti quantità di oro nelle riserve. Col venir meno di tale garanzia, è caduta anche la pretesa da parte della banca centrale di attribuire alle banconote, al momento della cessione allo Stato, alcun valore che non sia quello della semplice carta e dell’inchiostro di stampa. Il valore viene attribuito alla moneta dall’accettazione da parte della gente: quindi non è un valore intrinseco, ma conferito da terzi, non certo dalla banca centrale. Di conseguenza, l’apposizione al passivo, come fosse una traslazione di valore, dell’importo stampato sulle banconote stesse, è un artificio contabile configurabile come truffa ai danni dell’erario, in quanto esime l’importo stesso dall’assoggettamento alle imposte, come per qualunque altra azienda. È pura e semplice evasione fiscale. Che non avrebbe senso definire tale laddove la banca centrale fosse di proprietà pubblica, come il suo statuto imponeva che fosse; ma che ha invece senso, eccome, stante la proprietà al 95% privata della banca centrale (solo il 5% è di proprietà dell’INPS).  

Secondo Bankitalia, invece, l’apposizione al passivo dell’intero ammontare delle banconote cedute allo Stato contro titoli di quest’ultimo, è perfettamente legittimo, in quanto essa “cede la proprietà dei biglietti”, i quali, tuttavia e per sua stessa ammissione, “acquistano la loro funzione e il valore di moneta nel momento in cui essa li immette nel mercato”. Anche un bambino capirebbe, a parte il linguaggio un po’ aulico, usato per intimorire i meno colti, che si tratta di un elementare gioco di parole. Bankitalia vorrebbe farci credere che i suoi biglietti, senza valore fino alla cessione allo Stato, lo acquistano come d’incanto, e a suo credito, all’atto stesso del passaggio di mano. Un istante magico, quasi alchemico, allo scoccar del quale umili pezzi di carta, stampati per costituire una futura misura del valore di scambio di merci e servizi, se ne ammantano essi stessi con la promozione a valore della misura. Un valore che era proprio delle monete quando valevano intrinsecamente quanto i beni e i servizi che sarebbero andate a rappresentare: quando cioè esse erano costituite da oro o altro metallo, il cui valore era dato dalla loro desiderabilità e rarità, che  ne impedivano la moltiplicazione arbitraria da parte dei manipolatori del denaro, ossia dei banchieri.

Stupisce che una simile, banale frode, che ha spacciato carta per oro, quando quest’ultimo aveva da decenni cessato di garantire il valore della prima, abbia continuato ad essere spacciata, è il caso di dirlo, per “oro colato”. Non è credibile che uomini che per decenni hanno assunto la guida della nazione, riempiendo le centinaia di seggi delle due camere parlamentari, non abbiano avuto l’accortezza di capire che la casta dei banchieri li stava prendendo per il naso, conducendo gli altrettanto ignari cittadini italiani verso l’attuale situazione di penuria e di declino economico e culturale. L’alternativa è che coloro che occupavano le cariche più alte fossero ben consci di quanto ho sinora esposto e verrò esponendo in seguito, ma che abbiano preferito tacerlo per tornaconto personale: una vita di agi e gratificazioni, quali il denaro e il potere (vero o presunto) danno a chi attribuisce a questo binomio più importanza del rispetto di se stessi.

Appurato quanto sopra, vediamo di entrare più a fondo nella piaga che la sopra descritta interpretazione dei rapporti tra banca centrale e Stato procura a tutta la cittadinanza, esclusa ovviamente quella minima parte che da questo stato di cose trae immensi vantaggi.

Il considerare la moneta come proprietà di un pool di aziende private (la Banca Centrale e le banche commerciali e d’affari, suoi azionisti privati) porta ipso facto a considerare tutta la massa monetaria come un debito della comunità nei confronti del pool: il famigerato debito pubblico. Si verifica infatti, su scala nazionale, quanto avviene al cittadino che, per acquistare una casa, chiede un prestito ad una banca. Quest’ultima, per i motivi sopra detti, effettua un finto prestito, in quanto si trova nelle stesse condizioni della banca centrale; basta sostituire alle banconote cartacee dei numeri su un computer. Quindi, in realtà, non dà nulla. Però è venuto a crearsi un debito privato da parte del cittadino verso la banca commerciale: né più né meno di quanto è accaduto allo Stato, che, accettando le banconote della banca centrale, accetta di accendere un debito pubblico verso quest’ultima. Entrambi questi debiti sono fasulli, in quanto i prestatori, in entrambi i casi, non possiedono quanto pretendono di prestare. Se pensiamo che il debito pubblico è all’origine di tutte le nostre disgrazie, in quanto il suo ripianamento, cosiddetto “servizio del debito”, costringe i governi a caricare di tasse i cittadini, il frutto del cui lavoro viene dilapidato per sostenere una rendita parassitaria, non si vede quali motivi trattengano una classe politica trasparente e onesta dall’abolire questa odiosa gabella. Se non lo fa, se ne deduce che fa difetto di una o entrambe le doti. Sinora le coalizioni succedutesi al governo non hanno voluto risolvere questo sistema vessatorio alla radice, e l’ultimo è riuscito nel capolavoro di ridurre il debito pubblico solo a spese di un accresciuto debito privato, in sintonia con i dettami della BCE, ossia con una banca centrale più preoccupata dei parametri di Maastricht che del benessere degli Stati che ad essa sono stati asserviti senza consultazione popolare (e quando c’è stata, s’è risolta in una solenne bocciatura).

E a questo proposito, trasferiamoci senz’altro ai giorni nostri, ossia alla c.d. “tempesta perfetta” che ha sconvolto le istituzioni finanziarie di tutto il mondo, a partire dall’agosto 2007; non prima però di una breve introduzione.

Un meccanismo analogo a quello che determina il debito pubblico da parte dello Stato verso la banca centrale esiste anche, come già accennato, all’atto dell’accensione di un debito, ad es. un mutuo, da parte di un privato verso una banca commerciale. Quest’ultima è autorizzata a concedere prestiti, in forma ormai esclusivamente elettronica, fino ad un massimo di 50 volte la sua disponibilità liquida. È la c.d. riserva frazionaria, che consente ad una banca di erogare 100 quando ha in cassa il solo 2%, o forse neppure quello. Questa frazione era originariamente del 50%, poi ha cominciato a scendere sino all’attuale 2%. Chiunque può rendersi conto che questa procedura porta ad un progressivo indebitamento della popolazione nei confronti delle banche: fatto che si è puntualmente verificato, con un accelerazione sbalorditiva nell’ultimo decennio. Noi viviamo oggi in un contesto economico di un enorme debito pubblico e di un altrettanto enorme debito privato. I creditori dell’intero duplice debito sarebbero la Banca Centrale per il primo e le banche commerciali per il secondo. Ho usato il condizionale, in quanto questi due debiti avrebbero valore soltanto nel caso che i nostri creditori disponessero delle ricchezze che asseriscono di averci prestato. Il che, come già visto, non è. Noi quindi ci stiamo sfiancando di superlavoro per pagare dei debiti inesistenti, attraverso le tasse e i rimborsi su mutui e finanziamenti vari. Le tasse servono, per circa la metà, a sostenere l’amministrazione pubblica, sia per le spese correnti che per le opere pubbliche; mentre l’altra metà serve a pagare il “servizio del debito”, ossia le banconote colorate che la Banca centrale ha gentilmente ceduto allo Stato in cambio dei suoi titoli. Da notare che il bilancio dello Stato è regolarmente in avanzo; e passa in disavanzo dopo il prelievo per il servizio del debito. Se questi soldi fossero disponibili allo Stato, non si assisterebbe alle condizioni di degrado della cosa pubblica cui oggi assistiamo, e cui assistono gli stranieri che vengono in Italia attratti dalle sue bellezze, naturali o ereditate da avi ben più solleciti di noi del bene comune e del loro lascito ai posteri.

Qui giunti, ci sarà più facile comprendere il fenomeno della tempesta perfetta cui ho fatto cenno poco fa. Il “circolante”, ossia la massa monetaria in circolazione, deve corrispondere alla ricchezza esistente e prodotta in un Paese. In tal caso si ha “euflazione”, ossia il giusto equilibrio tra inflazione e deflazione. Funzione principale delle banche centrali è quella di agire sulle leve dei tassi e dell’emissione di nuova moneta per raggiungere idealmente questo equilibrio dinamico. Nel contempo, però, devono vigilare affinché il loro lavoro non sia vanificato dall’azione della moltitudine di banche commerciali che concedono prestiti in misura superiore alla capacità del sistema di reggerne lo stress economico.

Ebbene, le banche centrali, specie quella americana, sono venute meno a tutti questi loro statutari requisiti. Per risollevare i mercati dopo ogni mini o maxi recessione, hanno assecondato varie bolle speculative, abbassando eccessivamente i tassi e iniettando più liquidità del dovuto. L’eccesso di liquidità è riscontrabile, a grandi linee, nel divario tra inflazione dichiarata e inflazione reale. Se ad es. l’Istat dichiara un’inflazione al 2%, coincidente grosso modo con la crescita del PIL, mentre l’inflazione reale è del 10%, notiamo che la differenza dell’8% tiene conto proprio della massa monetaria aggiuntiva rispetto a quella che sarebbe stata necessaria per rispecchiare la crescita del PIL: si sarebbe dovuto aggiungere 2, mentre si è immesso 10. Se poi si tiene conto di cosa è stata capace di fare la finanza dei derivati, riuscendo a moltiplicare per 10 il PIL mondiale, ossia dandosi una composizione per il 90% di aria fritta, cominciamo ad avere un’idea di come tutte queste facili iniezioni di liquidità, cui non corrispondeva che una minima ricchezza reale, abbiano scardinato le basi di un’economia imperniata sull’esistente, anziché su future fate morgane. Infatti, le riprese drogate messe in atto per superare le cicliche recessioni, come quella di Internet di fine anni 90 e quella immobiliare seguita al 9/11, attraverso drastiche riduzioni dei tassi di sconto e prestiti personali troppo facili, sono finite con lo scoppio delle relative bolle, di cui l’ultima è decisamente la più devastante. Il pericolo, che le banche centrali, private e possedute da quelle commerciali, non possono né vogliono permettersi, è quello di un’implosione del sistema bancario. Per scongiurarla non hanno esitato a far ricorso proprio a quei mezzi che per statuto non dovrebbero usare: fare salvataggi delle banche in default col ricorso a prestiti astronomici che le banche in affanno non ripagheranno mai: li pagheremo noi cittadini, attraverso quella tassa occulta che è l’inflazione.

Si parla tanto di liberismo e di meritocrazia senza confini per risollevare il mondo, salvo rinnegare l’uno e l’altra quando si tratta di banche e dei loro mitizzati dirigenti. Non faccio qui l’elenco di questi ultimi, sbalzati di sella da un giorno all’altro, a causa della loro disastrosa conduzione; con la differenza che loro se ne sono andati con buonuscite multimilionarie, mentre centinaia di loro dipendenti venivano brutalmente messi sul lastrico.

Forse posso ancora affidarmi alla pazienza di chi mi legge per dire qualcosa anche sugli abusati concetti di inflazione e deflazione. Chi stampa moneta falsa crea inflazione; chi brucia moneta buona crea deflazione. Ma crea inflazione, né più né meno dei falsari, anche la banca che stampa moneta in esubero rispetto alla produzione di nuova ricchezza: la moneta si svaluta e abbatte il proprio potere d’acquisto. Questo s’è verificato, ad es., dal 2001 al 2006. Poi, la moneta circolante è stata via via rastrellata dalle banche, per fronteggiare l’onda d’urto di ritorno delle speculazioni finanziarie messe in atto dalle stesse negli anni precedenti, col risultato della presente deflazione.

Chi tuttavia si aspettava una discesa generale dei prezzi, tipica dei regimi deflativi, è rimasto deluso, in quanto ci troviamo al presente in una situazione ibrida: prezzi dei generi irrinunciabili (alimentari ed energia), in continua salita, e prezzi di generi non indispensabili ridotti all’osso dalla concorrenza spietata tra una pletora di fabbricanti e distributori. I primi sono nelle mani di grosse compagini industriali, italiane e straniere, che impongono i loro prezzi in un regime di quasi monopolio; i secondi in quelle di piccoli produttori e negozianti senza nessun potere contrattuale (a differenza dei loro dipendenti che non siano precari). Quindi oggi si hanno prezzi dei generi di prima necessità in regime di inflazione; e prezzi di quanto può essere, in buona parte, tagliato, in regime di deflazione.

Non potevamo trovarci in situazione peggiore. E l’Italia all’ultimo posto in Europa ne è una triste conferma. Io ho modestamente indicato una possibile, drastica, via d’uscita. Ma nessuno degli aspiranti alle massime poltrone di governo ne fa il minimo accenno.

Ciononostante, la posta in gioco: il futuro nostro e dei nostri figli, mi sprona, assieme ad altre, sparute, voci nel deserto, a predicare, ben oltre il 13 aprile. Repetita iuvant. 

Marco Giacinto Pellifroni                                                                24 febbraio 2008 

 

[Questo testo costituisce una traccia di quanto andrò a dire sabato 1 marzo, alle ore 21, alla Sala Gallesio di Finale Ligure (di fronte al Comune), col patrocinio del sodalizio DOMENICA EST, di TRUCIOLI SAVONESI e del COMITATO di LIBERAZIONE MONETARIA].

L’occasione sarà utile anche per la costituzione di un gruppo di lavoro sul tema vitale della SOVRANITÁ MONETARIA. Prego pertanto la massima partecipazione, anche se ciò comporterà il sacrificio di un sabato sera.