Detto
questo, voglio premettere che non sono un economista in senso
accademico. Forse però questo mi ha aiutato a pormi delle
domande elementari, quale quella che dà il titolo a questa
conversazione, senza cadere nelle elucubrate e sempre più
complesse risposte che l’economia ufficiale, ormai tramutatasi
in finanza strutturata, dà ai non addetti per confondere le
acque a proprio esclusivo vantaggio.
Dunque, “di chi sono i soldi”? Il
cittadino comune, educato secondo la visione corrente,
risponderebbe che sono dell’emittente: Banca d’Italia sino al
2001, e BCE d’allora in poi. E così ha sostenuto, ovviamente,
anche la stessa Banca d’Italia in una famosa vertenza sollevata
dal prof. Giacinto Auriti, Ordinario di Filosofia del Diritto e
di Diritto Internazionale proprio al riguardo delle proprietà
della moneta. Vertenza conclusasi con una pesante condanna del
professore, tra le cui imputazioni di reato richieste da
Bankitalia era persino quella di “lite temeraria”. Vediamo
succintamente cosa sosteneva il prof. Auriti e cosa
controdedusse Bankitalia SpA.
Prof. AURITI: Quando la
moneta era convertibile in oro, la banca centrale poteva ritenersi
proprietaria della moneta in quanto proprietaria della riserva. Con
l'abolizione della convertibilità e della stessa riserva (15 agosto del
1971), la banca centrale non è più proprietaria della moneta. Continua
tuttavia a comportarsi come tale perché emette moneta prestandola:
mentre dovrebbe accreditarla alla collettività nazionale perché è questa
che, accettandola, ne crea il valore.
BANKITALIA:
…i biglietti appena prodotti dall’Officina Fabbricazione biglietti della
Banca d’Italia costituiscono una semplice merce di proprietà della Banca
centrale, che ne cura direttamente la stampa e ne assume le relative
spese. Essi acquistano la loro funzione e il valore di moneta nel
momento, logicamente e cronologicamente successivo, in cui la Banca
d’Italia li immette nel mercato, trasferendone la relativa proprietà ai
percettori. […] La moneta viene
[quindi] immessa nel mercato in
base ad operazioni legislativamente previste e disciplinate, a seguito
del compimento delle quali la Banca d’Italia cede la proprietà dei
biglietti, i quali, in tale momento, come circolante, vengono appostati
al passivo nelle scritture contabili dell’Istituto di emissione,
acquistando in contropartita, o ricevendo in pegno, altri beni o valori
mobiliari (titoli, valute, ecc.), che vengono, invece, appostati
nell’attivo.
Molto schematicamente,
in queste due asserzioni sta il nocciolo dell’intero problema.
Secondo Auriti, e con lui molti autorevoli
pensatori (primo fra tutti il poeta Ezra Pound, che pagò a caro prezzo
le sue idee), la banca centrale era autorizzata a cedere allo Stato
banconote contro titoli del Tesoro (BOT, BTP, ecc.) soltanto fino a
quando vigeva la convertibilità delle prime contro equipollenti quantità
di oro nelle riserve. Col venir meno di tale garanzia, è caduta anche la
pretesa da parte della banca centrale di attribuire alle banconote, al
momento della cessione allo Stato, alcun valore che non sia quello della
semplice carta e dell’inchiostro di stampa. Il valore viene attribuito
alla moneta dall’accettazione da parte della gente: quindi non è un
valore intrinseco, ma conferito da terzi, non certo dalla banca
centrale. Di conseguenza, l’apposizione al passivo, come fosse una
traslazione di valore, dell’importo stampato sulle banconote stesse, è
un artificio contabile configurabile come truffa ai danni dell’erario,
in quanto esime l’importo stesso dall’assoggettamento alle imposte, come
per qualunque altra azienda. È pura e semplice evasione fiscale. Che non
avrebbe senso definire tale laddove la banca centrale fosse di proprietà
pubblica, come il suo statuto imponeva che fosse; ma che ha invece
senso, eccome, stante la proprietà al 95% privata della banca centrale
(solo il 5% è di proprietà dell’INPS).
Secondo Bankitalia, invece, l’apposizione
al passivo dell’intero ammontare delle banconote cedute allo Stato
contro titoli di quest’ultimo, è perfettamente legittimo, in quanto essa
“cede la proprietà dei biglietti”, i quali, tuttavia e per sua stessa
ammissione, “acquistano la loro funzione e il valore di moneta nel
momento in cui essa li immette nel mercato”. Anche un bambino capirebbe,
a parte il linguaggio un po’ aulico, usato per intimorire i meno colti,
che si tratta di un elementare gioco di parole. Bankitalia vorrebbe
farci credere che i suoi biglietti, senza valore fino alla cessione allo
Stato, lo acquistano come d’incanto, e a suo credito, all’atto stesso
del passaggio di mano. Un istante magico, quasi alchemico, allo scoccar
del quale umili pezzi di carta, stampati per costituire una futura
misura del valore di scambio di merci e servizi, se ne ammantano essi
stessi con la promozione a valore della misura. Un valore che era
proprio delle monete quando valevano intrinsecamente quanto i beni e i
servizi che sarebbero andate a rappresentare: quando cioè esse erano
costituite da oro o altro metallo, il cui valore era dato dalla loro
desiderabilità e rarità, che ne impedivano la moltiplicazione
arbitraria da parte dei manipolatori del denaro, ossia dei banchieri. |
Appurato quanto sopra, vediamo di entrare
più a fondo nella piaga che la sopra descritta interpretazione dei
rapporti tra banca centrale e Stato procura a tutta la cittadinanza,
esclusa ovviamente quella minima parte che da questo stato di cose trae
immensi vantaggi.
Il considerare la moneta come proprietà di
un pool di aziende private (la Banca Centrale e le banche commerciali e
d’affari, suoi azionisti privati) porta ipso facto a considerare tutta
la massa monetaria come un debito della comunità nei confronti del pool:
il famigerato debito pubblico. Si verifica infatti, su scala
nazionale, quanto avviene al cittadino che, per acquistare una casa,
chiede un prestito ad una banca. Quest’ultima, per i motivi sopra detti,
effettua un finto prestito, in quanto si trova nelle stesse condizioni
della banca centrale; basta sostituire alle banconote cartacee dei
numeri su un computer. Quindi, in realtà, non dà nulla. Però è venuto a
crearsi un debito privato da parte del cittadino verso la banca
commerciale: né più né meno di quanto è accaduto allo Stato, che,
accettando le banconote della banca centrale, accetta di accendere un
debito pubblico verso quest’ultima. Entrambi questi debiti sono fasulli,
in quanto i prestatori, in entrambi i casi, non possiedono quanto
pretendono di prestare. Se pensiamo che il debito pubblico è all’origine
di tutte le nostre disgrazie, in quanto il suo ripianamento, cosiddetto
“servizio del debito”, costringe i governi a caricare di tasse i
cittadini, il frutto del cui lavoro viene dilapidato per sostenere una
rendita parassitaria, non si vede quali motivi trattengano una classe
politica trasparente e onesta dall’abolire questa odiosa gabella. Se non
lo fa, se ne deduce che fa difetto di una o entrambe le doti. Sinora le
coalizioni succedutesi al governo non hanno voluto risolvere questo
sistema vessatorio alla radice, e l’ultimo è riuscito nel capolavoro di
ridurre il debito pubblico solo a spese di un accresciuto debito
privato, in sintonia con i dettami della BCE, ossia con una banca
centrale più preoccupata dei parametri di Maastricht che del benessere
degli Stati che ad essa sono stati asserviti senza consultazione
popolare (e quando c’è stata, s’è risolta in una solenne bocciatura).
E a questo proposito, trasferiamoci
senz’altro ai giorni nostri, ossia alla c.d. “tempesta perfetta” che ha
sconvolto le istituzioni finanziarie di tutto il mondo, a partire
dall’agosto 2007; non prima però di una breve introduzione.
Un meccanismo analogo a quello che
determina il debito pubblico da parte dello Stato verso la banca
centrale esiste anche, come già accennato, all’atto dell’accensione di
un debito, ad es. un mutuo, da parte di un privato verso una banca
commerciale. Quest’ultima è autorizzata a concedere prestiti, in forma
ormai esclusivamente elettronica, fino ad un massimo di 50 volte la sua
disponibilità liquida. È la c.d. riserva frazionaria, che consente ad
una banca di erogare 100 quando ha in cassa il solo 2%, o forse neppure
quello. Questa frazione era originariamente del 50%, poi ha cominciato a
scendere sino all’attuale 2%. Chiunque può rendersi conto che questa
procedura porta ad un progressivo indebitamento della popolazione nei
confronti delle banche: fatto che si è puntualmente verificato, con un
accelerazione sbalorditiva nell’ultimo decennio. Noi viviamo oggi in un
contesto economico di un enorme debito pubblico e di un altrettanto
enorme debito privato. I creditori dell’intero duplice debito sarebbero
la Banca Centrale per il primo e le banche commerciali per il secondo.
Ho usato il condizionale, in quanto questi due debiti avrebbero valore
soltanto nel caso che i nostri creditori disponessero delle ricchezze
che asseriscono di averci prestato. Il che, come già visto, non è. Noi
quindi ci stiamo sfiancando di superlavoro per pagare dei debiti
inesistenti, attraverso le tasse e i rimborsi su mutui e finanziamenti
vari. Le tasse servono, per circa la metà, a sostenere l’amministrazione
pubblica, sia per le spese correnti che per le opere pubbliche; mentre
l’altra metà serve a pagare il “servizio del debito”, ossia le banconote
colorate che la Banca centrale ha gentilmente ceduto allo Stato in
cambio dei suoi titoli. Da notare che il bilancio dello Stato è
regolarmente in avanzo; e passa in disavanzo dopo il prelievo per il
servizio del debito. Se questi soldi fossero disponibili allo Stato, non
si assisterebbe alle condizioni di degrado della cosa pubblica cui oggi
assistiamo, e cui assistono gli stranieri che vengono in Italia attratti
dalle sue bellezze, naturali o ereditate da avi ben più solleciti di noi
del bene comune e del loro lascito ai posteri.
Qui giunti, ci sarà più facile comprendere
il fenomeno della tempesta perfetta cui ho fatto cenno poco fa. Il
“circolante”, ossia la massa monetaria in circolazione, deve
corrispondere alla ricchezza esistente e prodotta in un Paese. In tal
caso si ha “euflazione”, ossia il giusto equilibrio tra inflazione e
deflazione. Funzione principale delle banche centrali è quella di agire
sulle leve dei tassi e dell’emissione di nuova moneta per raggiungere
idealmente questo equilibrio dinamico. Nel contempo, però, devono
vigilare affinché il loro lavoro non sia vanificato dall’azione della
moltitudine di banche commerciali che concedono prestiti in misura
superiore alla capacità del sistema di reggerne lo stress economico.
Ebbene, le banche centrali, specie quella
americana, sono venute meno a tutti questi loro statutari requisiti. Per
risollevare i mercati dopo ogni mini o maxi recessione, hanno
assecondato varie bolle speculative, abbassando eccessivamente i tassi e
iniettando più liquidità del dovuto. L’eccesso di liquidità è
riscontrabile, a grandi linee, nel divario tra inflazione dichiarata e
inflazione reale. Se ad es. l’Istat dichiara un’inflazione al 2%,
coincidente grosso modo con la crescita del PIL, mentre l’inflazione
reale è del 10%, notiamo che la differenza dell’8% tiene conto proprio
della massa monetaria aggiuntiva rispetto a quella che sarebbe stata
necessaria per rispecchiare la crescita del PIL: si sarebbe dovuto
aggiungere 2, mentre si è immesso 10. Se poi si tiene conto di cosa è
stata capace di fare la finanza dei derivati, riuscendo a moltiplicare
per 10 il PIL mondiale, ossia dandosi una composizione per il 90% di
aria fritta, cominciamo ad avere un’idea di come tutte queste facili
iniezioni di liquidità, cui non corrispondeva che una minima ricchezza
reale, abbiano scardinato le basi di un’economia imperniata
sull’esistente, anziché su future fate morgane. Infatti, le riprese
drogate messe in atto per superare le cicliche recessioni, come quella
di Internet di fine anni 90 e quella immobiliare seguita al 9/11,
attraverso drastiche riduzioni dei tassi di sconto e prestiti personali
troppo facili, sono finite con lo scoppio delle relative bolle, di cui
l’ultima è decisamente la più devastante. Il pericolo, che le banche
centrali, private e possedute da quelle commerciali, non possono né
vogliono permettersi, è quello di un’implosione del sistema bancario.
Per scongiurarla non hanno esitato a far ricorso proprio a quei mezzi
che per statuto non dovrebbero usare: fare salvataggi delle banche in
default col ricorso a prestiti astronomici che le banche in affanno non
ripagheranno mai: li pagheremo noi cittadini, attraverso quella tassa
occulta che è l’inflazione.
Si parla tanto di liberismo e di
meritocrazia senza confini per risollevare il mondo, salvo rinnegare
l’uno e l’altra quando si tratta di banche e dei loro mitizzati
dirigenti. Non faccio qui l’elenco di questi ultimi, sbalzati di sella
da un giorno all’altro, a causa della loro disastrosa conduzione; con la
differenza che loro se ne sono andati con buonuscite multimilionarie,
mentre centinaia di loro dipendenti venivano brutalmente messi sul
lastrico.
Forse posso ancora affidarmi alla pazienza
di chi mi legge per dire qualcosa anche sugli abusati concetti di
inflazione e deflazione. Chi stampa moneta falsa crea inflazione; chi
brucia moneta buona crea deflazione. Ma crea inflazione, né più né meno
dei falsari, anche la banca che stampa moneta in esubero rispetto alla
produzione di nuova ricchezza: la moneta si svaluta e abbatte il proprio
potere d’acquisto. Questo s’è verificato, ad es., dal 2001 al 2006. Poi,
la moneta circolante è stata via via rastrellata dalle banche, per
fronteggiare l’onda d’urto di ritorno delle speculazioni finanziarie
messe in atto dalle stesse negli anni precedenti, col risultato della
presente deflazione.
Chi tuttavia si aspettava una discesa
generale dei prezzi, tipica dei regimi deflativi, è rimasto deluso, in
quanto ci troviamo al presente in una situazione ibrida: prezzi dei
generi irrinunciabili (alimentari ed energia), in continua salita, e
prezzi di generi non indispensabili ridotti all’osso dalla concorrenza
spietata tra una pletora di fabbricanti e distributori. I primi sono
nelle mani di grosse compagini industriali, italiane e straniere, che
impongono i loro prezzi in un regime di quasi monopolio; i secondi in
quelle di piccoli produttori e negozianti senza nessun potere
contrattuale (a differenza dei loro dipendenti che non siano precari).
Quindi oggi si hanno prezzi dei generi di prima necessità in regime di
inflazione; e prezzi di quanto può essere, in buona parte, tagliato, in
regime di deflazione.
Non potevamo trovarci in situazione
peggiore. E l’Italia all’ultimo posto in Europa ne è una triste
conferma. Io ho modestamente indicato una possibile, drastica, via
d’uscita. Ma nessuno degli aspiranti alle massime poltrone di governo ne
fa il minimo accenno.
Ciononostante, la posta in gioco: il futuro nostro e dei
nostri figli, mi sprona, assieme ad altre, sparute, voci nel deserto, a
predicare, ben oltre il 13 aprile. Repetita
iuvant.
Marco Giacinto
Pellifroni
24 febbraio
2008
[Questo testo costituisce una traccia di
quanto andrò a dire sabato 1 marzo, alle ore 21, alla Sala Gallesio di
Finale Ligure (di fronte al Comune), col patrocinio del sodalizio
DOMENICA EST, di TRUCIOLI SAVONESI e del COMITATO di LIBERAZIONE
MONETARIA].
L’occasione sarà utile anche per la
costituzione di un gruppo di lavoro sul tema vitale della SOVRANITÁ
MONETARIA. Prego pertanto la massima partecipazione, anche se ciò
comporterà il sacrificio di un sabato sera.
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