CONFLITTI D’INTERESSE di Marco Giacinto Pellifroni | |
| Il titolo farebbe quasi automaticamente pensare ai conflitti d’interesse che i media, a fasi alterne, attribuiscono a Berlusconi. E certo non a torto. Ma, se “volgiamo intorno il guardo”, ci accorgiamo che in questo genere di conflitti l’Italia ci sguazza, e in buona compagnia. |
Quello a mio avviso più macroscopico e vergognoso riguarda la Banca d’Italia. Innanzitutto perché quello che di fatto e di diritto dovrebbe essere un Istituto di Diritto Pubblico -tale fu tardivamente dichiarato nel 1936- non dovrebbe essere privato, col rischio molto concreto di entrare, appunto, in conflitto con gli interessi generali della nazione. Spesso gli interessi di un’impresa privata non coincidono con l’interesse pubblico; tant’è che proprio ad organi pubblici è demandata la vigilanza per evitare che ciò accada. Bankitalia è una SpA, ossia una società per azioni, e i suoi azionisti dovrebbero essere enti pubblici, meglio se lo stesso Stato, proprio per quanto testé detto. E forse tali erano i soci ai suoi inizi: sottolineo il “forse”, in quanto il loro elenco era secretato fino agli albori del corrente secolo; quando si scoprì che, dietro l’etichetta nazionale, coloro che stampavano moneta e decidevano il tasso di sconto erano banche e assicurazioni private, con un unico, sparuto socio pubblico: l’INPS, col solo 5% di quote. Ciò era in aperta violazione dello statuto, sancito per legge, della banca centrale, che imponeva la natura pubblica dei suoi soci. Ebbene, il 16 dicembre 2006 Romano Prodi e il neoeletto Giorgio Napolitano rimediavano a questa incongruenza, non già ripristinando il rispetto della legge, ma modificandola, per accomodare, con tutti i crismi della legalità, i soci privati. Insomma, secondo una prassi consolidata, anziché imporre il rispetto di una legge violata per decenni, si è adattata la legge allo stato di fatto. Ora, si tenga presente che la Banca d’Italia dovrebbe vigilare sul corretto comportamento delle banche; ma come può esercitare tale ruolo se i controllati sono prima di tutto i suoi padroni? Si badi, non sto facendo esercizi da leguleio; sto invece sottolineando un conflitto di interessi che è alla base di tutto il disordine normativo che giustifica una conduzione delle banche nei confronti dei cittadini ormai sotto gli occhi, e nelle tasche, di tutti, con buona pace delle lenzuolate di Bersani. Mentre si discetta in TV di argomenti di scarso rilievo per le sorti degli italiani, nessuno osa far cenno a questa macroscopica violazione non solo della legge, ma del senso comune. Corollario di questa assurdità, di cui pochi comprendono la gravità, era, come già detto, la delega alla nostra banca centrale di stampare moneta e fissare i tassi di sconto. Una delega ora fatta propria dalla BCE: un istituto sovranazionale per il quale valgono le stesse considerazioni fatte per Bankitalia, ma che per di più è schermato da ogni interferenza degli Stati per i quali stampa e distribuisce moneta. Ciò in quanto la BCE è posseduta dalle banche centrali dell’eurozona e quindi è anch’essa, a tutti gli effetti, privata. I 15 Paesi dell’euro hanno abdicato ad ogni potere in campo monetario, e cioè hanno contravvenuto, almeno per quanto riguarda l’Italia, alla sovranità della propria moneta e quindi all’indipendenza economica della nazione. È nell’Eurotower di Francoforte che s’impernia il vero potere. Laddove la costituzione dice che il popolo è sovrano, ciò sta a significare che i rappresentanti eletti dal popolo, e che quindi lo rappresentano, devono esercitare potere sovrano in tutti i temi attinenti lo Stato e la sua indipendente esistenza. Oggi abbiamo di fatto uno Stato decapitato, in quanto l’impatto del denaro sui rapporti industriali, commerciali, economici e sociali è ovviamente di portata enorme e capillare; e l’averne ceduto a organismi stranieri la sovranità è puro e semplice tradimento della costituzione, e quindi della nazione. Una costituzione di cui s’è da poco celebrato il sessantesimo anniversario e che, sotto il profilo monetario, è stata stravolta in un suo punto cardinale, a beneficio di una lobby di banchieri i cui interessi sono ben lontani da quelli dei cittadini. Non voglio addentrarmi qui, per non andar fuori tema e per averne parlato ad nauseam in precedenza, sulla truffa del signoraggio e della moltiplicazione, ad esclusivo vantaggio delle banche, del denaro, sia cartaceo che anche, e soprattutto, scritturale ed elettronico. | |
| Voglio invece soffermarmi su un altro fenomeno molto diffuso negli enti pubblici e nelle società private: quello delle consulenze; per cui i controllori cambiano spesso cappello per diventare, all’occorrenza, consulenti delle società su cui dovrebbero vigilare. Un esempio di questi giorni riguarda le grandi società di rating: quelle che danno i “voti” a società private e pubbliche, e persino agli Stati, per certificarne l’attendibilità e quindi l’affidabilità. Soltanto gli ultimi scandali che hanno visto andare in profondo rosso grandi banche e assicurazioni che ancora godevano di rating ai massimi livelli (AAA) sono riusciti a portare alla luce la non disinteressata“indulgenza” verso queste ultime da parte |
delle società di rating, come Moody’s, Standard & Poor, Fitch. Del resto, a noi italiani la cosa non ha fatto grande impressione, dopo le esperienze di Cirio, Parmalat, bond argentini, ecc., che sono andate in default ben prima che il loro rating venisse adeguato alla realtà. Oggi le società di rating stanno cercando di rifarsi l’immagine, menando sciabolate di downgrading senza pietà, per il timore di diventare, da esaminatori, esaminati. Un giudizio ben difficilmente risulterà imparziale, se il giudicante ha rapporti di natura diversa col giudicato fuori delle aule di un tribunale o d’esame; o fuori delle sedi dove si decidono le valutazioni. Oggi stiamo vivendo un periodo “post-sessantottino”, nel quale i voti devono nuovamente essere meritati; e chi non ha i numeri, scende in graduatoria. E,voltando pagina, se le nostre democrazie richiedono stanziamenti milionari per svolgere efficaci campagne elettorali, che garanzie ci sono che i finanziatori non versino i loro oboli per questo o quel partito in cambio di qualcosa dopo la sperata vittoria? Questo sospetto è tanto più valido in una società che si regge su grandi consumi, sia privati che pubblici. E quelli pubblici vogliono grandi opere, ciclopiche infrastrutture, sulle quali si lucra di più. L’insistenza sul ponte sullo stretto, sulla TAV, sul Mose, si spiega più con la spinta a far girare grossi capitali che al fine stesso delle opere. Più si consuma e “si fa”, in questa società del fare, e più girano soldi, a beneficio dei grandi elettori e dei loro patrocinati, in un evidente quanto concrezionato conflitto di interessi. E così, in nome delle grandi opere, si trascurano i “lavoretti”, quelli che rendono migliore la vita di tutti i giorni, come l’umile pavimentazione di una strada o di un marciapiede. Ho tenuto per ultimo un altro campo dove il conflitto d’interessi ha addirittura un nome ad hoc: l’insider trading, affiancato da un suo parente stretto, l’aggiotaggio. L’osmosi tra alte cariche dello Stato e vertici di grandi banche, italiane e straniere, è sicura garanzia che informazioni riservate e di potenziale impatto sui titoli quotati in Borsa possano trapelare al di fuori delle sedi istituzionali e provocare l’immediato arricchimento, diretto o più probabilmente tramite teste di ponte, di personaggi con un piede nel pubblico e l’altro, palese o inconfessato, nel privato. Si prenda la più grande banca d’affari del mondo, la Goldman Sachs. I suoi vertici sono stati l’incubatrice di uomini poi passati al servizio dello Stato: si veda Henry Paulson, attuale Ministro del Tesoro americano, che della G-S era il numero uno; o Mario Draghi, ex direttore generale della G-S per l’Europa ed oggi Governatore di Bankitalia; o Gianni Letta, recentemente assoldato come consulente (!), pur essendo notoriamente il consigliere più ascoltato di Berlusconi e segretario alla Presidenza del Consiglio, quando quest’ultimo occupava tale carica. Come pensare che questi uomini, assieme a numerosissimi altri che non sto qui ad elencare, siano così adamantini da non cedere alla tentazione dei vantaggi, di potere e di pecunia, che la loro ambivalente posizione può garantire loro? Un famoso esempio di aggiotaggio (che è un po’ l’insider trading di un uomo di governo, anziché di un trader di Borsa) fu quello esercitato da Boris Eltsin, con l’acquisto massiccio di dollari alla vigilia del crollo, di cui egli era ben a conoscenza, del rublo russo. Il crimine gli venne condonato in cambio della sua scomparsa dalla scena politica. Ma tornando in Italia, e allargandoci in Inghilterra, chi sa quanto dei suddetti reati non fosse presente nelle speculazioni di George Soros nei primi anni ’90, quando lira e sterlina subirono una drastica svalutazione? Fatto sta che Soros divenne in quelle occasioni uno dei finanzieri più ricchi del mondo ed ottenne in seguito la laurea honoris causa in economia dall’Università di Bologna, alla presenza di Romano Prodi. Possibile che egli non abbia avuto emuli, magari nell’ombra, anche in Italia? Il reato di insider trading, guarda caso, è punito anche in Italia dal 7 maggio 1991; l’aggiotaggio è contemplato dall’art. 501 cod. pen., che irroga pene ancora maggiori “se il fatto è commesso per favorire interessi stranieri o se dal fatto derivi un deprezzamento della valuta nazionale o dei titoli di Stato ovvero il rincaro di merci di comune o largo consumo” (alla voce “aggiotaggio” su Encicl. Treccani). Tutte condizioni che si sono puntualmente verificate, sia nel 1992, con una svalutazione della lira del 30% e la successiva svendita delle nostre industrie alla mano straniera a prezzi stracciati, sia dal 2001 con l’avvento dell’euro, che ha trasferito in mani straniere, all’Eurotower, strategici interessi nazionali, causando nel contempo il progressivo impoverimento della popolazione, in virtù di un cambio irrealistico, della lievitazione dei prezzi e della sostanziale fissità dei redditi da lavoro dipendente e da pensione, come oggi nessuno più osa negare. Lascio a chi mi legge ogni valutazione al riguardo. Comunque, non è stato intentato nessun processo in base all’art. 501 C.P., nessuno è colpevole della situazione attuale (come non lo fu della situazione nei primi anni ’90) e anzi i massimi responsabili della politica economica e monetaria, tra cui spicca il Presidente della Repubblica pro-tempore Carlo Azeglio Ciampi, sono riveriti e stimati come grandi statisti. Anche l’attuale Presidente, con l’apposizione della sua firma alla scandalosa variazione dello statuto di Bankitalia, ha dato il suo contributo all’impunità dei conflitti d’interesse. Eppure emerge dai sondaggi che la figura del Capo dello Stato sia in pratica l’unica che ancora riscuota l’assenso e la fiducia della popolazione italiana, evidentemente sulla base dei retorici discorsi che ripetutamente escono dalla sua bocca, spesso in contrasto con la realtà del Paese (v. ad es. le controdeduzioni alle critiche mosse recentemente all’Italia dal New York Times, poi dal Financial Times di Londra e infine dal nostro Censis) . In base a tutto quanto sopra detto, come stupirsi che le opposizioni non abbiano mai sferrato un affondo contro gli evidenti conflitti d’interesse di Berlusconi, un premier che aveva platealmente più a cuore le sorti delle sue televisioni e dei suoi processi che quelli della nazione? Chi poteva candidamente lanciare la prima pietra? Mala tempora per noi sudditi. Marco Giacinto Pellifroni 17 febbraio 2008 |