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TERZO MONDO E MONDO TERZIARIO

di Marco Giacinto Pellifroni

Eravamo stati abituati a dividere il mondo in tre grandi gruppi: nel primo stavano i Paesi "avanzati", nel secondo quelli che cercavano di avanzare secondo logiche diverse da quella capitalistica, e nel terzo quelli senza grandi speranze di riuscire mai a risollevarsi.
I Paesi del primo mondo dovevano inizialmente la loro superiorità: 1) all’accesso alle materie prime sul loro stesso territorio e, nel terzo mondo, grazie alla compiacenza di governanti fantoccio insediati con colpi di Stato e, poi, con un massiccio ricorso alla corruzione; 2) al fatto che le materie prime venivano lavorate in fabbriche site nel primo mondo ed usufruenti di: 3) una costante ricerca e innovazione sviluppata in casa dalle stesse aziende produttrici; 4) ad un vassallaggio finanziario su scala mondiale ottenuto in virtù di un dollaro assurto a valuta di riserva, cui tutte le altre dovevano far riferimento.

Per decenni, dalla fine della seconda guerra mondiale, la gerarchia del pianeta è stata impostata su questa base piramidale, con al vertice gli USA e il dollaro, e alla base tutte quelle popolazioni che offrivano le loro braccia alla produzione agricola ed estrattiva di materie prime alimentari e minerali destinate a soddisfare il benessere del primo mondo. Gli appetiti di quest’ultimo, però, presero a crescere tumultuosamente, rendendo sempre più modesta la frazione delle loro proprie materie prime rispetto a quelle d’importazione. I perversi giochi dei cambi valutari giocavano sempre a favore del primo mondo, rendendo il terzo sempre più dipendente dal primo attraverso prestiti truffaldini erogati da istituzioni come la Banca Mondiale e l’IMF, secondo regole poi canonizzate nel WTO. I Paesi del primo mondo erano, grazie a questi meccanismi, creditori verso i poveri del terzo mondo e detentori di tutti i processi tecnologici e delle fabbriche che li impiegavano.

Negli ultimi lustri le cose sono drasticamente cambiate, tanto da trasformare gli USA da massimo creditore a massimo debitore del pianeta, soprattutto nei confronti di Paesi ex-comunisti, come la Cina e la Russia, oltre che di Paesi asiatici, come l’India, latino-americani e mediorientali produttori di petrolio. (Anche su scala interna, il debito dilaga: i consumatori devono ai prestatori, esclusi i mutui immobiliari, $ 2,5 trilioni!).Quanto ora segue vale per gli USA, ma può, sia pure in misura ridotta, applicarsi agli altri Paesi occidentali (più il Giappone), che seguono quasi sempre le orme della nazione-guida.

Di fatto il primo mondo ha assegnato ai Paesi emergenti il compito di estrarre e produrre gran parte delle merci ad essi necessarie, a costi, e quindi a prezzi, enormemente più bassi, grazie a requisiti ambientali e sindacali che definire tolleranti è puro eufemismo. Mentre da noi si discute per decenni sul passaggio di una centrale elettrica da gasolio a carbone, in Cina di queste ultime ne sorge una alla settimana. Mentre noi siamo quotidianamente bombardati da notizie di morti sul lavoro e si invoca più sicurezza, altrove si lavora con la disinvoltura che avevamo nei lontani anni ’50.
 In sostanza, il mondo occidentale ha ritenuto di poter fare a meno di produrre ciò che gli serve e di delegare a remote nazioni tale incombenza, consentendoci di dedicarci anima e corpo al terziario, insomma ai "servizi", con in testa il lavoro "virtuale": quello della finanza creativa. Mentre noi moltiplicavamo per dieci il PIL mondiale in titoli strutturati et sim., confinando il grosso della nostra attività produttiva in case da investimento, quei Paesi moltiplicavano per cento l’inquinamento prodotto per fornirci quello che ci serve e, soprattutto, quello che non ci serve se non a farci credere più "avanzati" di quando il necessario che lo fabbricavamo da soli. È diminuito drasticamente il prezzo delle merci, ma ne è aumentato almeno altrettanto il volume, con la conseguenza di un inquinamento estremizzato sia nei Paesi di origine che in quelli di consumo (Napoli ne è solo l’immagine più evidente). Persino gli ecologisti auspicano un ritorno della produzione industriale in madre patria per contenere lo scempio che si sta perpetrando in Asia.

Le fabbriche, in un primo mondo ormai terziazizzato, sono state relegate nella categoria degli optionals, mentre le banche dei Paesi esportatori scoppiano di dollari. Conseguenza: il dollaro si svaluta giorno dopo giorno (come pure l’euro, solo a velocità, per ora, inferiore) e quei Paesi si ritrovano ad aver sacrificato i propri lavoratori e il proprio ambiente per accumulare pile di carta di sempre minor valore; stesso problema incontrato dai Paesi produttori di petrolio, che non sanno più come spendere la crescente montagna di banconote verdi, dopo essersi sbizzarriti per anni con flotte di auto di extra-lusso, panfili, cattedrali nel deserto e via dicendo.

Sino a poco tempo fa il miglior impiego dei dollari ammassati era stato, anche in seguito ad accordi di vertice con gli USA più o meno segreti, l’investimento in titoli del Tesoro americano. Ma, a parte il fatto che ultimamente i rendimenti stanno scendendo di pari passo con i continui tagli dei tassi della Federal Reserve, si tratta pur sempre di rendimenti in dollari, il cui potere d’acquisto, in patria e all’estero, è in costante calo. Ogni pazienza ha un limite, e visto che le prospettive di punizioni esemplari, come quella riservata all’Iraq per aver osato vendere petrolio contro euro anziché dollari, sono ormai sempre più sfumate, non potendo gli USA far la guerra a mezzo mondo, l’impiego dei dollari in titoli del Tesoro americano appare sempre meno allettante e obbligato.

Allora, che fare? Quello che farebbe chiunque abbia un vistoso credito verso qualcuno che possiede dei beni ma paga con assegni scoperti: estingue il debito prendendogli la casa, l’auto, insomma qualche suo bene "al sole", come si usava dire. E così hanno deciso di fare i Paesi creditori: si stanno comprando l’America. Come? Creando dei plutocratici fondi, i Soverreign Wealth Funds (SWF), che investono in industrie e proprietà USA: quelle industrie condotte sull’orlo del fallimento proprio dalla concorrenza a distanza praticata in anni di droga consumistica occidentale, mentre laggiù nella profonda Asia gli uomini dagli occhi a mandorla si sfiancavano in silenzio negli sweatshops. Ora ci stanno presentando il conto: innanzitutto, come cambio climatico, e insieme come cambio della guardia nelle amministrazioni delle corporations industriali e persino finanziarie.

Gli SWF dispongono di ricchezze immense, pari ai loro crediti in dollari, per centinaia e migliaia di miliardi (trilioni), tanti quante le gocce di sudore e di inquinanti sparsi per produrre quanto noi abbiamo consumato e trasformato in rifiuti da oltre 10 anni a questa parte. E i Paesi petrolieri del Medio Oriente stanno progettando una propria moneta, mettendo in forse la futura accettazione di dollari. I servi stanno alzando la cresta, puntano a diventare padroni. E l’impero americano, come tutti gli imperi della storia, sta vivendo il suo irrimediabile declino. Al pari di noi europei, che sinora ne abbiamo, volenti o nolenti, fatto parte come province periferiche.

Alcuni senatori repubblicani stanno valutando l’apposizione delle vecchie buone norme protezionistiche, che tanto orrore hanno suscitato nella mentalità liberistica sinora imperante. Certe idee liberali, come l’abbattimento di confini politici e commerciali, forse suonano bene, come certe idee del ’68, ma comportano prezzi altissimi; e i problemi dell’ outsourcing (delocalizzazioni) nei Paesi dell’Est europeo dovrebbero pur insegnare qualcosa anche a noi, con il fardello di disoccupazione e lavoro precario e sottopagato che ne è conseguito per i nostri giovani. In misura ridotta, quanto detto sopra per Cina e India vale ovviamente anche per il nostro vicino Est, con l’aggravante però dell’afflusso di massa degli stessi lavoratori stranieri e l’inevitabile scontro con quanti di noi trovano ormai solo impieghi paragonabili a quelli dei loro Paesi d’origine: quelli dove abbiamo trasferito fabbriche e maestranza, ricerca e sviluppo.

Questi scompensi sono il prodotto naturale della globalizzazione, che livella ogni cosa al basso e che, da convinto no-global della prima ora, io recrimino con rinnovato vigore. Ma ancor più mi sconcerta la convivenza nostrana di una mentalità che si crogiola nel definirsi aperta per quanto riguarda le frontiere e lo scannamento tra poveracci, ma si rivela poi estremamente chiusa quando si tratta di caste a tutti i vari livelli, da quella parlamentare a quella dell’amministrazione pubblica. Fuori di queste dovremmo essere tutti esposti ad ogni sorta di concorrenza, da quella perorata dall’ex-ministro Bersani a quella, sleale, proveniente da Paesi esteri, mentre nelle loro enclaves dimorano gli intoccabili, che di concorrenza hanno solo sentito parlare.

Marco Giacinto Pellifroni                                                        10 febbraio 2008