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RACCONTO IN DUE PUNTATE

Come dice il titolo storia ambientata in treno e che dunque parla anche di treni. Tema principale (da me estremizzato) è però l’indifferenza verso il prossimo di cui un po’ tutti noi cadiam vittima. Ma anche la vita, preziosa nonostante tutto. È un racconto corale, come io prediligo, con tutti i personaggi destinati a incontrarsi, appunto, su una carrozza del treno delle 7,05. Buona lettura. 

IN TRENO, ORE 7, 05

Massimo Bianco

 

 L’uomo camminava ondeggiando sul ciglio della strada. Aveva bevuto e si era pure impasticcato, ma né l’alcool né la droga l’aiutavano a sentirsi meglio. Anzi, oltre a star male dentro gli girava la testa, aveva nausea e provava sensazioni sconvolgenti. Dinanzi a lui si stagliava la stazione. La guardò senza davvero vederla e gli sfuggì un lamento. Si piegò quindi da una parte per rimettere. Per fortuna era tarda notte e non lo vedeva nessuno, perché il suo carattere chiuso e introverso avrebbe mal sopportato simili incresciose figure.

Poco dopo si rincamminò. Continuava a sentirsi male ma almeno era più lucido. Pensò alla sua esistenza e la giudicò inutile da essere vissuta. Si sentiva solo e abbandonato da tutti: nessuno lo comprendeva. Aveva pregato tanto, chiedendo aiuto al Signore di tutto cuore, ma anche Dio sembrava averlo dimenticato. D’altronde cosa aveva fatto di buono nella vita per meritarsi il suo aiuto? Ci pensò su. Si sforzò davvero di trovare un qualcosa per cui fosse valsa la pena di essere venuto al mondo e di restarvi ma non ci riuscì.

Gli vennero poi in mente Frank Capra e il grande Jimmy Stewart: “La Vita è meravigliosa”. Aveva amato moltissimo quel film ma adesso il ricordo gli infondeva solo tristezza. Si sentiva un fallito sotto ogni punto di vista, incapace di realizzarsi nel lavoro in cui era l’ultima ruota del carro e privo di una degna vita sentimentale. Perché se avesse almeno avuto una famiglia, una moglie e soprattutto dei figli a cui voler bene e a cui pensare, a suo parere gli sarebbe stato più facile affrontare le difficoltà contingenti. Invece si era scoperto sterile e figli non ne avrebbe avuti mai, almeno in maniera naturale e anche a causa di ciò la sua consorte lo aveva abbandonato.

Gli veniva spontaneo pensare che nessuno avrebbe fatto caso alla sua morte così come nulla al mondo sarebbe cambiato in peggio senza la sua nascita. Da quest’ultimo punto di vista al più i suoi pochissimi amici si sarebbero dovuti cercare qualcun altro per trascorrere le loro serate di svago e sai che tragedia. Tanto, benché per un suo mal riposto senso di riserbo fosse incapace di sfoghi, con i suoi famigerati silenzi non era nemmeno di buona compagnia. No, davvero, nessuno ne avrebbe patito se lui non fosse mai nato. E comunque non ci sarebbero stati angeli senza le ali come nel film a fargli cambiare idea, lo sapeva. Meglio davvero non essere mai nato.

Incespicò, quindi si rimise in equilibrio e si guardò intorno, sorpreso. Era entrato in stazione senza neppure accorgersene e ora camminava fiancheggiando i binari. Pensilina e marciapiede erano terminati da un pezzo e così lui era inciampato su di un sasso del ghiaione più grosso e squadrato della media. Si volse all’indietro. La stazione era già lontana. Dopo esservi entrato aveva continuato a camminare per diversi minuti senza prestare attenzione a quanto faceva, immerso com’era nelle sue cupe meditazioni. Come se la sua psiche volesse trascinarlo via da lì, per ricominciare lontano, da qualsiasi parte. Ma gli sarebbe servito trasferirsi? No, non c’era alcun luogo dove andare, per lui: nessuno può sfuggire a sé stesso.

La testa gli pulsava e la nausea lo scombussolava contribuendo ancor di più a farlo sentire senza arte né parte, destinato a fallire ovunque. Stava albeggiando. L’inizio di una giornata che a suo parere non sarebbe stata migliore delle precedenti.

Udì il fischio di un treno in partenza, si voltò e scorse la luce del locomotore farsi lentamente più vicina. Allora dal fondo della mente gli sorse improvviso un pensiero. Perché no? Tanto…

Ogni mattina milioni di pendolari o di viaggiatori occasionali si alzano presto per recarsi in una stazione ferroviaria. Quel giorno però in casa della famiglia Mollo la sveglia suonava e suonava ma il suo proprietario non aveva neppure la forza di allungare un braccio per zittirla. Il caldo umido era opprimente e lui, Isaia, quella notte si era trovato in un bagno di sudore. Per addormentarsi aveva impiegato ore, vanamente trascorse a girarsi e rigirarsi nel letto e proprio quando, sentendosi un poco più fresco, era riuscito finalmente a chiudere gli occhi, quella maledetta sveglia era scattata.

Il treno delle 7,05 lo aspettava. Le 7 e 5 oh mio dio, che alzataccia. Doveva prendere quel dannato treno, sì, lo sapeva ma gli mancava la volontà di alzarsi. Eppure si poteva ben fare, no? Non era poi un orario così terribile. Di sicuro ce n’erano tanti altri costretti a prendere quel treno, pensava mentre si girava dall’altra parte e il suono della sveglia si interrompeva. Beh, ci vadano loro a prenderlo, ci vadano loro se ci tengono tanto. Io non ne ho voglia. Ci vadano loro a…

Non riuscì neppure a terminare il pensiero, perché si era riaddormentato.

 

Lara e Miriam s’incontrarono come al solito ai piedi del ripido e striminzito giardinetto realizzato in mezzo ai nuovi palazzi dipinti a righe gialle e salmone, sorti in luogo della vecchia fabbrica traslocata nell’entroterra. Nei dintorni a quell’ora mattutina non si vedeva anima viva. Uniche eccezioni l’anziano solitario che ogni giorno portava a passeggio un cane spelacchiato e un tipo in completo blu e con la ventiquattrore, che montò in fretta su una Golf e partì rombando.

Le due ragazze si erano conosciute per caso due anni prima tra treni, corriere e aule universitarie. Seguendo all’incirca le medesime affollate lezioni del primo anno di corso gli era capitato alcune volte di sedere l’una nei paraggi dell’altra. Nella facoltà prescelta non conoscevano nessuno che frequentasse il loro stesso anno accademico, a parte un ex compagno di classe di Miriam, da quest’ultima trovato sempre profondamente antipatico e perciò evitato con accuratezza. Ciascuna delle due stava quindi piuttosto sulle sue e una volta seguiti i corsi rientrava diritta a casa, dove continuava con le antiche frequentazioni. Un venerdì mattino, sarà stata la terza settimana di attività del semestre, Lara si era accomodata come al solito in uno scompartimento del treno, dove aveva riconosciuto, seduta vicino al finestrino, una ragazza già vista a lezione. D’istinto l’aveva salutata. Si trattava di Miriam. Avevano scambiato due parole e prima di giungere a destinazione avevano fatto in tempo a scoprire di abitare ad appena un paio di centinaia di metri l’una dall’altra. Ben presto le due giovani erano diventate amiche.

Quel giorno le attendeva un esame, l’ultimo della sessione estiva e per suscitare una buona impressione sul professore si erano vestite con cura. Miriam come al solito era nervosa e angosciata. Quando una data d’esame si avvicinava, per quanto freneticamente ripassasse aveva sempre la spaventevole impressione di non saper nulla, per cui diventava intrattabile. Lara in genere era invece fatalista perfino quando, come quel giorno, sapeva di avere alcuni seri buchi nella preparazione: vada come vada, è inutile preoccuparsi, tanto non cambierebbe nulla. In effetti il modo di fare dell’amica l’infastidiva, anche perché tra le due era in genere proprio Miriam a ottenere i voti migliori. Concentrate com’erano negli studi senza ragazzi a distrarle, fino a quel momento avevano peraltro superato una dozzina di esami a testa e, nonostante il rendimento leggermente superiore di Miriam, mantenevano entrambe una media apprezzabile.

Come sempre le accadeva, durante il percorso Miriam non fece che ripetere ad alta voce le sue mille preoccupazioni e Lara stoicamente stette ad ascoltarla senza fiatare. A piedi impiegarono una quindicina di minuti per giungere in stazione. L’abbonamento ancora per quel mese l’avevano rinnovato, quindi evitarono la biglietteria. Invero non avevano necessità di partire così presto, ma nei giorni degli appelli amavano presentarsi in largo anticipo e attendere il professore dalle prime file. E poi di solito il 7,05 aveva il vantaggio di essere puntuale.

In stazione si percepiva una strana tensione ma loro avevano troppi pensieri per la testa per prestarvi attenzione. C’era ancora tempo per la partenza ma il treno regionale era già in attesa. Montarono a bordo, si fermarono in una carrozza ancora vuota, tirarono fuori i libri e s’immersero nello studio. 

Bé in estate lavorava bene ed era contento. Battendo le spiagge prima o poi qualche bagnante benevolo disposto a fare acquisti lo trovava sempre. Partiva ogni giorno in autobus o in treno e scendeva a rotazione nelle varie località rivierasche, visitandone almeno un paio al giorno. Quel dì puntava sulle località balneari del genovese. Offriva le solite carabattole, tipo cinture, portafogli e t-shirt e inoltre una collana di libri assente in libreria, dedicata agli scrittori africani.

Lui però era abituato al clima costiero asciutto e ventilato del suo Senegal e, da quando era venuto in Italia, aveva spesso sofferto sia il freddo intenso invernale sia l’opprimente caldo umido estivo. A Spotorno, all’inizio della settimana precedente, era stato fortunato, con giornate piacevolmente secche e arieggiate ma poi, a Loano e a Borghetto Santo Spirito, due per lui orrende cittadine di seconde case, aveva trovato un afa opprimente. Se però se ne lamentava i bianchi non gli credevano: ma come, con quella pelle nera il sole è il suo ambiente naturale, non può trovarsi male, di certo punta a farsi compatire per vendere di più.

D’altronde pure lui faticava a comprendere gli uomini bianchi, gente priva di autentica spiritualità e di memoria del passato, sempre in movimento e assurdamente legata allo scorrere del tempo, salvo poi trascorrere contraddittoriamente ore e ore immobili sotto il sole cocente per l’assurdo desiderio di diventare neri come lui.

Dalla biglietteria Bé era salito ai binari a testa bassa e senza guardarsi intorno, infilandosi poi in una carrozza a caso, dove si era stravaccato nel primo sedile trovato libero. Era in anticipo sui suoi orari abituali, perché sapeva che ad Arenzano c’era un bel parco pieno di pavoni e per una volta intendeva rilassarsi qualche ora, prima di iniziare la giornata. La primavera precedente, quando per la prima volta in vita sua aveva visto i pavoni, era rimasto assai colpito da quella loro incredibile ruota e desiderava ardentemente rivederla.

Qualcosa non andava, però. Un qualcosa trasmesso nell’aria gli causava un inspiegabile tensione interiore. Si era verificata un’acuta negatività, lì in stazione. Non sapeva quale ma si trattava di un brutto evento, ne era certo. L’ansia cominciò a pervaderlo, come mai in genere gli accadeva, ma si sforzò di chiudere gli occhi e ignorarla.

 

L’ingegner Pietro Canevari quel mattino si doveva recare presso la corte di appello del tribunale di Genova e non ne era contento: ma guarda un po’ se con tutte le faccende che avrei da sbrigare mi doveva capitare pure questa, pensava. Sorteggiato come giudice popolare, dapprima si era dovuto sciroppare un procedimento su una rissa con accoltellamento in un bar e ora gli sarebbe toccato seguire un nuovo dibattito. Un omicidio in ambito familiare, se aveva capito bene. Suo cugino era rimasto a disposizione per tre mesi senza mai essere interpellato e lui invece dopo tre settimane era già al secondo processo. La sua solita sfortuna.

Non avrebbe voluto accettare l’incarico ma, quando era stato convocato in tribunale a Savona, il delegato gli aveva chiesto se avesse ragioni serie e gravi per rifiutare e lui, beh, no, in tutta coscienza non se l’era sentita di addurre giustificazioni. Motivi così seri e gravi per rifiutare in fin dei conti non ne aveva.

Ora si augurava di finirla rapidamente, prendendosela con se stesso per gli eccessi di scrupoli che lo avevano portato a impelagarsi per – almeno – tre mesi proprio quando lo studio ingegneristico con cui collaborava lavorava a pieno ritmo, impegnato in un progetto importante legato ai grandi appalti aperti nell’area portuale.

Parcheggiò l’auto in piazzale Aldo Moro e salì con calma i gradini. Giunto in stazione si mise in coda in biglietteria e nell’attesa si assicurò che il suo spezzato grigio Armani fosse in perfetto ordine. Pietro Canevari teneva al proprio aspetto esteriore: non si poteva mai sapere chi si stesse per incontrare, perché rischiare una brutta figura? Subito dopo aver acquistato il biglietto rivolse lo sguardo verso il tabellone e solo allora si accorse che tutti i treni diretti verso o provenienti dal levante erano indicati in ritardo indeterminato.

Cosa diavolo starà succedendo, si chiese.

Sapeva dello sciopero previsto a partire da quella sera e gli sorse improvviso lo spiacevole dubbio che a sua insaputa lo avessero anticipato.

Ah no eh, maledetta gentaglia, brontolò tra sé e sé.

L’ingegnere odiava i ferrovieri. Per lui non erano altro che una manica di lavativi continuamente in sciopero da più di vent’anni. Chiunque decidesse di contestare i propri datori doveva avere le sue buone ragioni, non lo negava, chiunque tranne i ferrovieri. Quelli a suo parere avevano torto a priori, qualunque fossero le loro motivazioni, perché chi si astiene di continuo dal lavoro per avidità o per le motivazioni più futili, danneggiando l’intera cittadinanza senza scrupolo alcuno, alla fine non è più giustificato neppure quando è costretto a incrociare le braccia per motivi davvero seri.

Siccome l’ingegnere aveva la fissa di essere informato su tutto e su tutti prese a chiedere spiegazioni a chiunque gli capitasse a tiro. Dopo molti boh e non so qualcuno infine gli spiegò che la linea per Genova era momentaneamente chiusa a causa di un tizio gettatosi sotto il treno.

Ecco, ci mancava solo questa, meditò irritato.

“E quanto ci vorrà per liberarla?”

Non si sentiva molto ottimista ma la risposta era stata rassicurante.

“Mah, il corpo sta lì da un pezzo, a quest’ora i rilevamenti li avranno ben terminati. Il tempo di spostare il cadavere dai binari e si parte, non dovrebbe volerci molto.”

Andò a sedersi in treno sperando in bene. Si guardò intorno. I vagoni non erano suddivisi in scomparti ed erano a due piani. Scelse una carrozza ancora libera, in cui erano presenti soltanto un africano carico di borsoni, mezzo addormentato con i piedi allungati sul sedile di fronte e all’estremità opposta due giovani ben vestite immerse in un paio di tomi ponderosi. Il suo sguardo venne calamitato da queste ultime. Una soprattutto gli piaceva, una bella ragazza con il viso dolce e lineare ben evidenziato dai corti capelli castani e il bel corpo armonioso. Solo i seni erano forse troppo piccoli e quasi sparivano sotto la camicetta. La seconda invece era assai più racchia, con quel viso cavallino accentuato dalla pettinatura a coda, la fronte bombata, il naso troppo pronunciato e il corpo ossuto, ma l’attraenza dell’altra a suo parere bastava per entrambe. Volle sedersi vicino, gli piaceva godere della compagnia di ragazze giovani.

 

La signora Cerone, insonne casalinga di mezza età, si recava a Genova con un amica e vicina di casa, la professoressa d’inglese in pensione Maria Pia D’Aliesio. Contava di trascorrere l’intera giornata per negozi. Quando il gatto manca i topi ballano e con suo marito assente per affari fino a tarda notte e il figlio in vacanza all’estero con amici aveva l’intera giornata a disposizione. La vicina poi era nubile e priva di legami e poteva assentarsi quanto le pareva.

Le due signore adoravano far shopping in maniera quasi compulsiva e riempivano le loro abitazioni di prodotti inutili, per la disperazione del dottor Cerone e del conto in banca della D’Aliesio. Accadeva perché ognuna delle due si sentiva frustrata. L’una continuava a lamentarsi dei presunti obblighi eccessivi da cui si sentiva schiacciata, pentita di aver messo su famiglia, al contrario la seconda si doleva per la propria scelta di restare nubile, per cui segretamente le due donne s’invidiavano l’un l’altra.

Solo facendo compere trovavano pace. Anna Cerone conosceva un paio di negozietti in centro assai carini, dove si potevano acquistare prodotti di ottima qualità a prezzo decente e contava di non rientrare a casa a mani vuote, mentre la professoressa D’Aliesio era ben lieta di verificare la qualità dei suddetti esercizi, non solo per se stessa ma anche per una nipote di cui si avvicinava il compleanno.

All’incirca davanti alla postazione dei taxi la signorina D’Aliesio incrociò una più giovane conoscente in tailleur color crema e la salutò.

“Oh ciao Virginia, come va?”

“Non mi dire niente, sono stanca morta. Quest’anno mi hanno chiamato all’Andrea Doria di Genova come membro esterno e non ne posso più, meno male che ormai abbiamo finito, oggi c’è la riunione finale prima di esporre i quadri.”

Quindi l’insegnante, Virginia, s’accomiato e si allontanò. Pareva davvero spossata, nonostante fosse ancora mattino presto. All’improvviso si portò una mano alla fronte rammentandosi chissà cosa e un istante dopo prese in fretta il cellulare e compose un numero.

Dandole oramai le spalle le due amiche entravano intanto nell’edificio progettato da Pier Luigi Nervi. Giunta dentro la stazione madame Cerone si accorse di un insolito nervosismo da parte dei presenti e mentre faceva il biglietto per tutte e due chiese al cassiere se era successo qualcosa e andò subito a riferire all’amica: un uomo si era gettato sotto il treno e la linea era bloccata.

“Beh” – sentenziò la D’Aliesio – “che c’importa? Non abbiamo alcuna fretta, l’importante è che a bordo ci siano posti a sedere, se poi anche si parte in ritardo va bene lo stesso, no?”

La casalinga non ebbe obiezioni da addurre e seguì la vicina di casa in vettura senza profferir verbo.

 

Marongiu si alzava ogni mattina da lunedì a venerdì ampiamente prima delle sette per andare al lavoro in ufficio a Sampierdarena. Accadeva ormai da sette anni. Per lo più si trattava d’un inutile e ripetitivo disbrigo di carte. Tuttavia benché i primi tempi odiasse il suo lavoro ormai ci aveva fatto l’abitudine e non gli dispiaceva nemmeno più troppo. E poi, come spesso accade negli uffici pubblici, il compito non era impegnativo e tra sosta per la colazione, pausa caffè e interruzioni varie la giornata scorreva veloce. 

A circa metà del percorso tra abitazione e stazione, si era trovato davanti, come già in precedenti occasioni, un altro pendolare. Si trattava di un tizio basso e grasso, calvo e con i baffi, anziano e dunque di certo ormai prossimo alla pensione. Lo vedeva sovente salire a bordo insieme a lui tenendo sotto braccio una cartella straboccante documenti e poi scendere alla medesima stazione sua, ma a quel punto svoltavano subito in direzioni opposte, per cui non sapeva né dove risiedesse esattamente né dove si recasse ogni giorno nel capoluogo regionale.

Quel mattino il tizio brontolava e imprecava a mezza voce tra sé e sé, arrabbiato per chissà quale motivo. Tampinandolo senza percepire cosa dicesse, Marongiu era salito ai binari passando come al solito dall’ingresso secondario, evitando così la biglietteria con i tabelloni degli orari. Tanto il 7,05 partiva senza sgarro dal terzo binario fin dal suo primo anno di lavoro e sapeva di trovarcelo. Tutto il contrario di quello successivo, soppresso un giorno sì e l’altro pure, a parte forse il lunedì, e per questo ormai disertato dalla massa dei viaggiatori.

Ed eccolo lì, infatti, come sempre. Guardò l’ora. Mancavano cinque o sei minuti buoni alla partenza, inutile correre. Quanto al ritorno: boh? Quasi ogni pomeriggio alla stazione di Sampierdarena, la terza per importanza tra le innumerevoli della grande Genova, negli ultimi anni aveva avuto a che fare con treni in ritardo spaventoso o addirittura soppressi. La vita da pendolare si era fatta ormai impossibile. Per quaranta miserabili chilometri impiegava in media quasi due ore. Pensando al ritorno gli tornò alla mente la disavventura peggiore capitatagli, quando il treno su cui viaggiava, peraltro in grave ritardo fin dalla partenza, si era arenato a Cogoleto e senza spiegazioni i passeggeri erano stati invitati a scendere e trasferirsi su un altro convoglio già in attesa. Avevano tutti attraversato rassegnati il binario per raggiungere il secondo locale a due piani, ma un battagliero cinquantenne, passando dinanzi al locomotore, aveva preso a inveire ad alta voce contro i ferrovieri. Il macchinista si era adontato rispondendo per le rime ed era sceso a terra. Era finita a pugni e calci, trascinando nella rissa pure un amico del viaggiatore e il collega del macchinista e poi altri ancora, intervenuti per separare i contendenti. Infine era sopraggiunta la polfer, che aveva tratto in arresto quattro dei coinvolti, costringendo le ferrovie a trovare dei sostituti e ritardando ulteriormente la ripresa del tragitto, col risultato che quel giorno lui era arrivato a casa tardissimo, stanco morto e con un diavolo per capello…

Ma perché rivangare ricordi tanto spiacevoli? Marongiu salì a bordo con un agile balzo, figlio delle intense attività sportive praticate durante l’adolescenza. Il treno si stava affollando ma disponeva ancora di posti a sedere. Si diresse verso coda e, giunto alla penultima carrozza, scelse un sedile a caso, di fronte a un paio di signore non più giovani e assai ciarliere. Occupò il posto di fianco al suo per il collega che altrimenti quando sarebbe salito, tre fermate più avanti, sarebbe stato di sicuro costretto a restare in piedi. Estrasse quindi di tasca il giornale per dedicarsi a una tranquilla mezz’ora di lettura.

 

Intorno al luogo in cui giace la vittima si è formata una calca spaventosa e gli uomini della polfer hanno avuto il loro daffare a tenere la gente indietro. L’ufficiale al comando stenta a capire il modo di ragionare degli esseri umani. Se lui avesse potuto avrebbe volentieri girato al largo da lì, invece di ronzarvi intorno come un moscone sulle feci di un cane. E quel dannato capostazione poi, rompe e protesta di continuo! Comincia davvero a scocciarsi. Per fortuna il medico legale è arrivato e in quel momento se ne sta accovacciato a fianco del cadavere.

 

…Dddrrriiiiiiinn … dddrrriiiiiiiinn, aaaahh di nuovo, porca miseria, mi sono appena riaddormen… dddrrriiiiiiiinn, maledetta sveglia, ddrrriiTlak. Aaaahh. Stavolta non ricominci più, carognetta…Non ho voglia di alzarmi, aaaahh, non ne ho proprio voglia, zero…

…A dirla tutta non ne ho mai voglia, da un po’ di tempo in qua. Quanto avrò dormito? Dieci minuti, forse, a giudicare da come mi sento. È come se fossi appena andato a letto. Aaaahh, eppure almeno un po’ di più devo ben esserci riuscito.

E ora… mmf… ora mi tocca andare a Genova fin dal mattino. Chi me l’ha fatta fare a prendermi l’impegno… Mi sento depresso. …A Genova… in treno… a fan culo… e proprio dopo una sera di lavoro mentre oggi non dovevo tornarci più… quasi quasi mi giro su di un lato e mi rimetto a dormire e al diavolo l’appuntamento, ecco, aaaahh, così…

… silenzio … silenz…

“Isaia, tesoro, ma non dovevi uscire presto stamani?”

“Mmf, lasciami in pace mamma per favore.”

“Ma come! Ognuno deve obbedire ai propri doveri, non lo sai? E chi dorme non piglia pesci, io ultimamente proprio non ti capisco, alzati e falla finita, Isaia.”

“Va bene, va bene, ora mi alzo.”

Farla finita. Già proprio così, ma non come la intende lei. …Suicidio. Perché mi sento sempre così?… Sono stanco della vita, ecco la verità. Sì, ne sono stanco e mi vorrei suicidare. Suicidio. Una parola che non oso mai pronunciare ad alta voce, che quasi non oso neppure pensare ma che pure mi affiora in superficie sempre più sovente. Da tanto tempo ormai ci medito sopra. Da quando? Direi da quando Agnese mi ha lasciato? …Ma non è stata lei la causa, no. In Agnese in fondo non credevo perché, beh, perché in fondo al cuore sapevo che era una stronza, una grandissima stronza egoista. Si era messa in testa di rimodellarmi a sua immagine e somiglianza perché amava solo sé stessa. Nella sua mente ero soltanto una appendice di lei e io lo sapevo, lo intuivo. Ho cercato di venirle incontro, di accontentarla il più possibile, l’ho cercato sul serio, perché desideravo tanto una compagna e ci volevo credere…

…Mi è bruciato che sia durata così poco, nonostante le mie illusioni. Non era innamorata di me, però le piacevo. Le piacevo, sì… ma l’ho delusa. Io deludo sempre tutti. Mi ha desiderato tanto tempo. È stata lei a venirmi dietro, mica ci pensavo, io, ma quando poi ci siamo messi insieme io ne ero felice per davvero, tuttavia per lei evidentemente non è stato come pensava e si è stufata. Per l’ennesima volta una donna non ne ha più voluto sapere di me e allora ho cominciato a lambiccarmi sul perché deve finire sempre così e ci ho sofferto in maniera cocente. Amor proprio ferito, ecco! …

…Un brutto colpo, lo ammetto, perché perdere l’amor proprio è la cosa peggiore, ma… mmf, no, non deve essere stato quando lei… no. Non solo, almeno. È stato dopo che… ho iniziato a pensarci sul serio a… a…. Dopo, quando… quando la compagnia teatrale si è sciolta. Ecco quando. L’anno scorso, a fine estate. Ero tornato scapolo da un paio di settimane o poco più e mi sentivo ancora abbacchiato.

Colpa di Paolo e Marina, che non avevano più voglia di andare avanti. Gli altri li hanno seguiti a ruota e io, io non avrei voluto rinunciare ma… alla fine eravamo rimasti solo in due e stavolta non ce la siamo sentita di rifondare il gruppo un’altra volta, né io né Giorgio. Perché due fallimenti erano già stati troppi. Tuttavia ormai la sentivo come la mia compagnia, mia. Lei mi aveva riempito le giornate e mi aveva illuso. Illuso ancora, sì, io m’illudo sempre, qualunque cosa faccia. È il mio difetto principale, perché rende i risvegli più amari. Ma quello era diventato più di un hobby, per me. Recitavamo bene e avevamo avuto un paio di eloquenti successi a livello locale. Per questo avevo costruito castelli in area, sogni. Stupido, sono un maledetto stupido…

…Abbiamo fatto teatro per tanto tempo. La compagnia per me è stata uno sfogo. Ha riempito la mia vita per dieci anni e quando tutto è finito la vita stessa ha cominciato a sembrarmi vuota.

Suicidarmi, morire. Da quel giorno ci penso di continuo. Mi sento inutile. Se morissi… forse allora Paolo e Marina si pentirebbero di avermi distrutto la compagnia, di avermi scaricato all’inizio delle prove lasciandomi con il sedere per terra per la commedia. Forse allora si sentirebbero in colpa…

…Se almeno mi madre mi lasciasse in pace. Io lo so cosa pensa di me, so quanto mi disprezza, come si vergogna dinanzi alle amiche e alle conoscenti di doversi tenere in casa un figlio ancora scapolo e disoccupato o al più semi occupato. Un inutile scapestrato giunto ormai alle soglie dei quarant’anni, ecco cosa sono io per lei.

E che rabbia mi fa quando per insultarmi mi aggiunge un anno.

“Hai trentotto anni, che aspetti a trovarti un lavoro serio?

“Trentasette mamma.”

“Ma ormai vai per i trentotto.”

“Ma finché non li ho compiuti ne ho trentasette, accidenti.”

E da quando due mesi fa ne ho compiuto trentotto per davvero arrotonda addirittura a quaranta, si vede che trentanove gli suona male.

Forse è solo da quando ho cominciato a pensare ai quarant’anni che ho cominciato a meditarci seriamente, al suicidio, prima in fondo era un pensiero ricorrente ma capzioso.

“Hai quarant’anni, cosa aspetti a dare un senso alla tua vita?” Mi ha chiesto ieri.

“Ma va a fan culo, mamma. Smettila una buon volta di aggiungermi gli anni. Perché non arrotondare addirittura a cinquanta allora, già che ci sei, così facciamo cifra ancor più tonda.”

“Perché no? Tanto fanno presto a venire, pure loro.”

Maledetta! E questo numero, quaranta, mi gira sempre di più per la testa. 40. Quarant’anni, tempo di bilanci. E va bene, io sono un fallito, lo so, ha ragione lei. Un figlio che non è riuscito a completare gli studi, né a trovare un lavoro decente, né a sfondare con il teatro, tanto meno crearsi una famiglia come ha invece fatto la sua sorella minore, residente a Milano, un figlio fallito in ogni campo. E non perde occasione per ricordarmi tale onta:

“Oggi, Isaia…” -  Isaia mi chiamo, vi rendete conto? Isaia Mollo, che nome del cavolo. - “…Oggi, Isaia, ho visto da lontano la signora Profeta e allora mi sono affrettata a cambiare marciapiede e a fissare dritto davanti a me, perché quella tutte le volte che mi vede mi ferma per raccontarmi i trionfi di suo figlio e pare me lo faccia apposta, perché sa che io invece sono stata sfortunata. Quando la smetterai di farmi vergognare?”

Solo a questo pensa, che la faccio vergognare con le sue amiche, ma lei crede di farmi del bene comportandosi così? Crede davvero che io sia orgoglioso di me stesso? Io soffro ma nessuno pare mai accorgersene, anzi, mia madre non perde occasione di offendermi, come se io lo facessi apposta a non volermi trovare una compagna e un lavoro ben remunerato per il piacere maligno di gravare su due poveri vecchi che sopravvivono a stento con una misera pensione. Mi ha detto proprio così qualche giorno fa: gravare su due poveri vecchi.

Al colmo dell’ira mi sono messo a urlare, l’ho mandata a quel paese e mi sono trattenuto a stento dal colpirla. Gli ho piantato una mano sulla spalla, furibondo. A quel punto per fortuna mi sono controllato, ma per qualche istante ho desiderato farle del male, tanto male. L’avrei fatta fuori volentieri. C’è mancato poco, neppure se lo immagina quanto poco c’è mancato.

E poi di nuovo ho pensato: meglio rivolgere a me stesso questa dannata rabbia e farla finita una buona volta con tutte le mie sofferenze. Le sfuriate tanto non servono a nulla, mia madre non fa nessuno sforzo per comprendermi.

“Invece di prendertela con me, perché stasera non esci e non ti trovi una ragazza, una buona volta.”

Ecco, infatti, in quell’occasione, tutto ciò che ha avuto da dire in risposta alle mie urla, l’incosciente.

“Ma certo, adesso esco di casa, schiocco le dita e le donne arrivano a frotte. Ma come te lo devo ripetere che non ne conosco di ragazze libere, a parte Valentina, che mi considera un amico e basta? Come te lo devo dire che non ho l’opportunità di trovarmela? E anche se ce l’avessi chi lo dice che io le piacerei? La fai facile, tu, ma che cazzo ne sai della mia vita?”

“Ehi, modera i termini, niente brutte parole a tua madre, come ti permetti.”

“Ma va al diavolo.”

“Ci andrò, ci andrò e sarai tu a farmi morire piena di peccati. Anche con i tuoi amici e con le ragazze ti comporti così? Per forza che nessuno ti sopporta.”

“E smettila per dio. Cosa ne sai tu se nessuno mi sopporta! Io ci vado d’accordissimo con i miei amici!” Ah, che pressione allo stomaco.

“Agnese mi sembrava una così brava ragazza, non dovevi lasciarla. Perché non la chiami?”

“Buona questa, sarei io adesso a… ma non l’hai capita che è stata lei a non volermi più?”

“E certo, lo vedi se no non ho ragione? E chi lo vorrebbe poi un morto di fame come te? Quando ti trovi un lavoro vero?

“Il mio È un lavoro vero.”

Attualmente faccio la maschera in una multisala. Part time, quando le sale sono più affollate, quindi il venerdì in occasione delle prime, il mercoledì sera quando il cinema costa meno, nei fine settimana e nelle festività. Non è un granché, ok, ma è pur sempre un lavoro.

“Ma fammi il piacere. Che aspetti a vincere un concorso e guadagnare bene? Quando potrò essere orgogliosa di te?”

Come se dipendesse esclusivamente da me. Dio come la odio. Ogni volta quella donna mi fa sentire male allo stomaco. Mi sta provocando un ulcera, la maledetta.

 

Il racconto Si concluderà la prossima settimana

Massimo Bianco (25/01/08)