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SWAP

di Marco Giacinto Pellifroni

Questo termine inglese è ormai tristemente famoso in quanto in suo nome si è costruito, a partire dal 1982, parte del castello dei derivati finanziari, o collaterali che dir si voglia, insomma tutta quella montagna di spazzatura sino a poco tempo fa osannata come un gioiello di tecnica finanziaria, frutto di geniali elucubrazioni matematiche. 

In realtà, nessuno ben capiva che cosa si nascondesse sotto le astruse formule che rivaleggiavano in difficoltà con quelle, non meno complesse, della relatività e della meccanica quantistica, intuite da Einstein e Born. Con la differenza che queste avrebbero portato ad un avanzamento prodigioso della conoscenza della natura, mentre quelle non erano che un’illusione, nel migliore dei casi, o, più probabilmente, una consapevole truffa ai danni dei non addetti.

Molto più appropriato sembra invece il paragone di swap, nel suo significato di scambio finanziario, con quello usato in pornografia, ad indicare una pratica di scambio biologico che solo l’estasi erotica può rendere desiderabile; così come la cupidigia di guadagni facili, ottenuti mediante la miracolistica moltiplicazione del denaro, può obnubilare la ragione e far credere come normale un “monte premi” finanziario decuplo della ricchezza effettiva, fatta di cose tangibili e non di meri numeri sui computer.

In soldoni, tutta la finanza degli ultimi decenni ha celebrato un solenne divorzio dall’economia reale, legata al concreto, e si è data alla masturbazione con il virtuale, ricorrendo alle pratiche più scriteriate per credere, o meglio far credere, che i suoi sogni di gloria corrispondessero alla realtà: insomma una cospirazione demenziale che magnificava un nirvana non dissimile dal mondo dei balocchi col cui miraggio Lucignolo aveva incantato Pinocchio.

Come altrimenti definire il sorgere di reparti bancari che, a fronte di prestiti virtuali a squattrinati creditori, usavano poi le precarie rate di questi ultimi a garanzia di titoli pomposamente proposti, tramite (ormai ex) rispettabili istituti di rinomanza mondiale, agli ignari clienti? Ma ancora maggior sbalordimento suscita il fatto che ciclopiche compagnie assicurative garantissero a quelle stesse banche la copertura dei suddetti traballanti crediti. Quando, alla fine, l’inevitabile si è verificato, queste compagnie assicurative, tra cui spiccano per dimensioni la MBIA e la Ambac americane, sono andate ovviamente in tilt, trascinando nel vortice anche le banche che ad esse si erano improvvidamente affidate

Il fenomeno è talmente incredibile, sia per la sostanza che per le dimensioni, da far dubitare della sanità mentale dei CEO sia delle banche che delle assicurazioni coinvolte. Noi tutti pensiamo che, in un mondo che si vanta di essere meritocratico, come quello delle grandi imprese di respiro internazionale, i CEO, ossia i suoi vertici, siano composti da manager di indiscussa abilità, intelligenza e responsabilità.  

 Ma dall’agosto 2007, quando i nodi sono venuti al pettine, la nostra eventuale stima è crollata miseramente, quando li abbiamo visti radiati dai loro augusti incarichi uno dopo l’altro (sia pur con favolosi quanto immeritati compensi!), sull’onda di perdite astronomiche sofferte dalle loro patinate società.

Ancora minor stima nutriamo per i CEO delle banche centrali, come la Fed americana e la nostra BCE, che sono intervenuti in soccorso di queste aziende mal guidate, pompando esorbitanti pile di liquidità pur di salvarle dal baratro. Liquidità sottratta dalle tasche nostre, cioè dei contribuenti, attraverso le tasse e l’inflazione, o meglio il calo del potere d’acquisto, che queste immissioni di denaro provocano. Per la verità, noi italiani eravamo già adusi a queste tristi pratiche di swap di soldi pubblici nelle casse di società languenti, come la Fiat, sia in forma diretta che come cassa integrazione, secondo la ben nota formula di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Oggi i sussidi statali, tanto deprecati dai neoliberisti, anziché destinarsi ai comparti dell’imprenditoria più esposti alla concorrenza sleale di nazioni “canaglia” come la Cina, si convogliano invece verso banche e assicurazioni, tramite uno spudorato bailout (salvataggio), mentre le aziende si vedono costrette a delocalizzare proprio nell’occhio del ciclone, in un Oriente più o meno estremo.

Entrambe le pratiche sono moralmente esecrabili: le delocalizzazioni, in quanto creano in Italia dequalificazione e precariato tra i lavoratori, specialmente giovani, mentre incoraggiano criminali sfruttamenti di uomini e ambiente nelle nazioni ospitanti, notoriamente prive di scrupoli in entrambi i versanti; i bailout in quanto premiano la disonestà delle istituzioni finanziarie e penalizzano i cittadini che, oltre ad essere  le vittime finali di swap et sim. devono anche pagare le spese per il salvataggio dei loro carnefici.

Tutta questa allegra finanza va avanti da decenni, ma ha raggiunto i suoi picchi in questo nuovo millennio. Né il governo di centro-destra né quello appena caduto hanno mai mosso un dito per fermare il disastro. Eppure, si presumeva che ci fossero economisti di lodata maestria alla guida dei dicasteri interessati, nonché dei vari organi di controllo, dalla Consob alla Banca d’Italia alla BCE. E’ difficile credere che tutti questi “maestri” non si rendessero conto di cosa stava bollendo in pentola. Se lo sapevano, sono accusabili come minimo di reticenza, se non di connivenza; e se non se n’erano accorti, erano degli sprovveduti, indegni di occupare a così caro prezzo le loro dorate poltrone.

L’anarchia ideologica, che da ormai lunga data ha confuso i vetusti concetti di destra e sinistra, impedisce di prevedere quali misure sono da aspettarsi dall’avvento al potere di coalizioni senza altri connotati che non siano l’esercizio del potere stesso a proprio esclusivo vantaggio. La tutela degli interessi della nazione sembra essere l’ultima delle loro preoccupazioni. Tutela che dovrebbe assumere la forma di protezionismo nei confronti di Paesi che mirano alla nostra rovina mediante politiche monetarie e commerciali di dumping selvaggio, disastrando le strutture produttive del nostro Paese, anzi di tutti i Paesi occidentali. Cosa significa osannare il liberismo in patria, magari infierendo sui piccoli commercianti ed autonomi, su cui ha infierito il governo Prodi, lasciando peraltro indenni le grandi imprese, private o cooperative, e la compagine bancario-assicurativa, corteggiando al tempo stesso Paesi come la Cina o l’India, coi cambi valutari fissati dai rispettivi governi al fine di indebolire l’economia dei Paesi importatori, come l’Italia e gli stessi USA, che hanno dissennatamente smantellato la propria rete produttiva, sostituendola con una smisurata “industria” di servizi finanziari?

Oggi ci troviamo senza neppure un governo, in balia degli eventi.  

Chi mi ha letto in precedenza sa quanto poco tenero io sia stato nei confronti del governo testé giunto al capolinea, impietoso cogli umili e comprensivo coi potenti. Ma il governo che verrà mi atterrisce almeno in pari misura, con l’aggravante di un tiranno plutocrate che dello Stato ha un concetto da basso impero, con una corte di sudditi intenti a fare i suoi interessi.

Non posso che reiterare l’invito a quanti hanno a cuore l’avvento di una vera democrazia di recarsi alle urne prossime venture ed entrare in cabina con la scheda, ma senza matita. Non serve più. O forse serve solo per annullarla, onde evitare che le schede bianche le riempia il giorno dopo qualche scrutinante, magari con uno swap di voti.

Sarebbe un segnale forte, un’intimazione popolare a sgombrare le due aule parlamentari in vista di nuove norme e nuovi eletti. Saranno gli italiani capaci di questo semplice gesto? Potrebbe dar l’avvio ad uno swap col segno più, finalmente. 

  Marco Giacinto Pellifroni                      27 gennaio 2008