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LA RIVINCITA DELL’ORO

di Marco Giacinto Pellifroni

E così una novella corsa all’oro, emula dell’ottocentesca gold rush americana, sta prendendo corpo. Le quotazioni del metallo giallo, pur senza grandi clamori pubblicitari (e vedremo tra breve il perché), viste in un grafico, somigliano ad una scalata di quinto grado, con la vetta dispersa nelle nuvole.

Quando, il ferragosto del 1971, Nixon sancì la fine della convertibilità del dollaro in oro, il grande pubblico non si rese conto che si era consumato un divorzio epico: le banconote, da quel fatidico giorno, valevano solo la carta e l’inchiostro con cui erano, e sarebbero state, stampate.

Un bel sollievo per il dollaro e per tutte le principali valute, che ad esso facevano riferimento. L’oro, moderna Cenerentola, veniva degradato, da bene di riserva e garanzia del valore delle banconote in circolazione, a frivolo materiale di gioielleria o, al più, medicale. Peccato che negli anni successivi l’escalation del petrolio e la conseguente inflazione a due cifre portarono l’oro all’allora (1980) massimo storico di $ 820 l’oncia. Questo, nonostante l’accesso al metallo giallo come bene rifugio fosse proibito al normale cittadino sin dagli anni della Grande Depressione del 1929.

Fu allora che sui mercati finanziari e dei cambi calò la scure del nuovo presidente della banca centrale americana (Fed), l’economista Paul Volcker. Costui alzò drasticamente il tasso di sconto, ossia il costo del denaro, portandolo a due cifre e deprimendo di conseguenza le spinte inflative dal picco di oltre il 13% al 3%. In tal modo l’oro scese fin quasi ad ¼ del suo valore massimo, con ciò dimostrando di essere un valido valore di riferimento dell’inflazione. In sostanza, ciò che si acquistava con un marengo d’oro 100 o 50 anni fa si può ancor oggi acquistare, ovviamente a grandi linee, con quella stessa moneta. Questo però vale in assenza di turbamenti del mercato da parte di soggetti aventi interessi contrari. Chi sono questi soggetti? Sono proprio le banche centrali: quegli enti cioè che dal metallo giallo avevano voluto divorziare. Non paghe del divieto al cittadino comune di investire i propri risparmi in un bene che potesse attraversare indenne terremoti finanziari o bellici, anziché subirne le conseguenze in termini di perdita di potere d’acquisto, a volte abissale, come durante e dopo l’ultima guerra, le banche centrali contrastarono l’ascesa naturale delle quotazioni auree immettendo sul mercato massicce dosi di lingotti prelevati dai propri forzieri. Questi input, per la verità, furono alquanto modesti durante lo scorcio del secolo scorso, in quanto gli investitori privati venivano attratti dai giochi di borsa, nonostante le sonore bastonate che ritmicamente ne svuotavano i portafogli; ovvero dalla speculazione immobiliare, responsabile dello sfascio del territorio, e considerata un valido sostituto solido dell’oro, di cui peraltro vigeva ancora l’inaccessibilità legale. Il ripetuto scoppio delle bolle borsistiche (high tech e Internet) e poi della bolla immobiliare, con tutti i guai subprime cui stiamo assistendo, non hanno lasciato molte alternative a quanti, non fidandosi più di numeri su un computer, hanno cercato una via di salvezza in beni solidi (commodities) diversi dal mattone. Ciò è stato agevolato anche dalla revoca nel 2000 dei divieti di possedere oro per investimento. Rispetto ad altre materie prime, l’oro ha il vantaggio della compattezza (valore per unità di peso) e  dell’inalterabilità: caratteristiche assenti in altre pur pregiate commodities, che hanno in più il pregio dell’indispensabilità, come le materie prime energetiche, alimentari e metalliche (petrolio, uranio, grano, mais, rame, alluminio, zinco, ecc.). Per tutti questi beni, essendo evidentemente impossibile farsene una scorta,  esiste solo la possibilità di un possesso indiretto, cioè non fisico, ma attraverso fondi di investimento dedicati; il che riporterebbe l’investitore verso la minacciosa borsa valori, ossia proprio il luogo da cui si era da poco ritratto dissanguato, mettendo nel conto anche i salassi per commissioni varie ad ogni movimento.

Tutto quanto sopra detto spiega, almeno in parte, lo schizzo verso l’alto delle quotazioni dell’oro fisico (spot gold). Dico “in parte”, in quanto queste quotazioni sono tuttora frenate da un accordo tra le banche centrali, che, come tutte le decisioni di notevole impatto finanziario, fu assunto  a Basilea, nella poco nota sede della Banca dei Regolamenti Internazionali:
l’ultra potente BIS, dove ogni mese si riuniscono i banchieri centrali. L’accordo prevedeva un certo quantitativo, fisso e concordato, di lingotti d’oro da vendere sul mercato a scadenze prefissate nell’arco di 5 anni, fino al 2009. Alle vendite delle banche centrali s’è aggiunta quella dell’IMF (Fondo Monetario Internazionale), che, dopo aver salassato decine di Paesi poveri con prestiti a interessi usurari e clausole capestro sulle modalità di riassetto economico e industriale, ora si ritrova coi debiti lui stesso e con nessuno che vuole più farsi prestare un soldo da un’organizzazione simile.

Ma non basta. Ricordate la querelle dell’estate scorsa circa la proposta del governo di vendere una quota delle riserve d’oro di Bankitalia per pagare parte del c.d. debito pubblico? Ci fu una schermaglia tra vari politici ed economisti sull’insensatezza di una mossa simile; la Banca Centrale Europea calmò poi le acque asserendo che operazioni simili sono ormai sotto il suo controllo e pose il suo veto. Sarebbe il caso di aggiungere che l’oro di Bankitalia SpA dovrebbe essere dello Stato italiano, non di una società privata, quale essa è; e che, qualora anche fosse di quest’ultima, non avrebbe molto senso che essa vendesse il suo oro per pagare un debito asseritamente verso se stessa da parte dello Stato italiano. Un po’ di ordine in questa ingarbugliata materia davvero non guasterebbe.  

Onde tentare di deprimere il corso dell’oro, grande nemico della moneta cartacea, esposta all’inflazione, le banche centrali hanno da tempo escogitato un altro mezzo oltre alla vendita dichiarata: prestare, anziché vendere, oro (gold lease). Un trucco di dimensioni colossali, che si aggiunge a quello di stampare moneta spacciandola per un loro credito nei confronti dei governi.

Un trucco neanche tanto originale: le banche centrali “prestano” oro alle c.d. bullion banks, che in realtà fanno parte della famiglia di banche proprietarie della Fed: insomma una partita di giro tra amici. Piccolo particolare: il tasso di interesse è davvero “da amici”, ed attualmente è dello 0,1% annuo! Roba da far impallidire persino il tasso ufficiale di sconto del Giappone, che per un decennio è rimasto sotto l’1% e solo da poco sta risalendo, troncando così il fenomeno del carry trade dello yen (ossia i prestiti in yen a tassi prossimi a zero per investirli su mercati finanziari con rendimenti multipli). Ebbene, anche nel caso in esame si tratta di transizioni analoghe, dove al posto dello yen c’è l’oro delle banche centrali: un carry trade dell’oro, insomma, dove le bullion banks prendono a prestito oro al ridicolo interesse dello 0,1% dalle banche centrali, a loro legate da una vasta ragnatela di compartecipazioni, e lo vendono sul mercato, investendo subito il ricavato in quant’altro possa rendere 50, 100 volte di più.

Vi aspetterete, a questo punto, che, visto che si tratta di un prestito, e più precisamente di un leasing, verrà pure il momento della restituzione. Questo è quanto sarebbe accaduto se il prezzo dell’oro fosse sceso: in tal caso, bastava ricomprare l’oro sul mercato a prezzi più bassi e renderlo al prestatore, incassando l’ammontare della differenza. Ma le bullion banks, facendo proprie le mire delle banche centrali di abbattere sempre il prezzo dell’oro per non rivelare quanto la sua sostituzione con la carta deprima il valore delle banconote, ossia il loro potere d’acquisto, avevano sbagliato i calcoli. Infatti, l’eccessiva montagna di derivati ed altre porcherie finanziarie senza un minimo di garanzia, quindi reali progenitori dei subprime immobiliari, hanno determinato la perdita di fiducia nel sistema finanziario e il graduale appetito di un bene solido come l’oro, che, a dispetto dei voti delle bullion banks, ha cominciato a crescere vigorosamente.

Allora, come rendere i lingotti presi in prestito dalle banche centrali? Problema analogo a quello dei carry traders in yen (o franchi svizzeri) al lievitare dei tassi giapponesi ed elvetici. O si dichiara bancarotta o non si ripaga il prestito; o entrambe le cose.

Il fatto è che se un privato carry trader valutario fallisce procura danno solo a se stesso; ma se fallisce una bullion bank, beh, la cosa è molto più grave, perché il sistema finanziario nato sull’esperienza dei fallimenti bancari a catena del 1929 prevede un sistema di salvataggio (bail out) delle banche in sofferenza di liquidità. Questo significa, in soldoni, che la banca centrale competente inietta (presta?) liquidità quanto basta a salvare la banca in default. Ciò è quanto sta avvenendo in grande stile in questi mesi, dopo le gigantesche dichiarazioni di insolvenza da parte di banche anche di dimensioni mondiali: ad es. Citigroup, Merryl Linch, Deutsche Bank, UBS, etc. Non è chiaro se e quando tali “prestiti” verranno ripagati. Del resto le banche centrali sono lì soprattutto per questo: salvare le loro accolite, e soltanto dopo preoccuparsi eventualmente dei cittadini. Dopo tutto, a questi ultimi la mano in tasca viene infilata in forma criptica e anestetizzata: tramite l’inflazione causata dalle suddette iniezioni alle banche in apnea monetaria.

Torniamo al nostro oro. Non diverso destino aspetta le tonnellate di preziosi lingotti usciti come prestiti dai forzieri della varie banche centrali e non più rientrati, in quanto le bullion banks, come ad es. Chase Manhattan, J.P. Morgan, e forse la stessa Goldman Sachs (la più astuta, che si è ritratta dal castello di carte della finanza strutturata nell’autunno del 2006, poco prima del crollo), non sono in grado di rendere alle banche centrali l’oro oggi raddoppiato rispetto ai tempi del “prestito”. Semplicemente, quindi, l’oro non verrà restituito. Del resto, tra amici, ci si dà una mano nei momenti difficili. A pagare, tanto, saranno sempre i contribuenti, con le tasse e l’inflazione.

Ma c’è dell’altro. L’oro ceduto dalle banche centrali non è più presente fisicamente. Ma contabilmente sì! Sbigottisce apprendere che, delle 30.000 tonnellate dichiarate, solo circa la metà sono effettivamente presenti; l’altra metà è presente sotto forma di ricevute dei suddetti prestiti…Il trucco è sempre servito proprio per far credere che ci fossero riserve almeno doppie di quelle reali, calmierando così le quotazioni dell’oro sul mercato; mentre quella metà che si dichiarava giacere nei forzieri era già in circolazione sul mercato. La capacità delle banche centrali di manovrare lo spot gold si è cosi dimezzato e c’è da credere che il picco di $ 915 raggiunto la settimana scorsa sia solo una tappa verso valori estremamente più alti. Del resto gli $ 820 raggiunti nel 1980, se attualizzati, corrispondono a circa $ 2250. C’è quindi ampio spazio per ulteriori e sostanziosi balzi in avanti.

Concludo dicendo che la Bank of England, nel triennio 1999-2002, vendette la metà delle sue riserve auree, perdendo ca. £ 578 milioni (di sterline; oggi la perdita sarebbe più che doppia), per volere del Cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown. Sì, proprio lui, quello che ha appena preso il posto di Tony Blair come Primo Ministro. Fare errori colossali ai danni dei contribuenti, a quanto pare, paga, e non solo in Italia, dove Ciampi, dopo aver bruciato centinaia di miliardi in una patetica difesa della lira, dopo aver transitato la lira nell’euro a un cambio di cui abbiamo pagato e stiamo pagando le brucianti conseguenze, ricevette una promozione finale ancora maggiore, assurgendo addirittura a Presidente della Repubblica, osannato da tutti come Padre della Patria.

In certi ambiti il termine responsabilità è in disuso, specie nelle grandi istituzioni finanziarie, statali e industriali, dove i vertici, responsabili di enormi dissesti, si ritirano con “buonuscite” di decine e centinaia di milioni, mentre i dipendenti hanno paghe da fame e vengono licenziati in massa (a migliaia di questi tempi nelle grandi banche e assicurazioni internazionali in default: 20.000 solo alla Citigroup). Con buona pace della tanto esaltata meritocrazia, valida evidentemente solo ai piani medio-bassi.

  Marco Giacinto Pellifroni                          20 gennaio 2008