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Qualità del lavoro, qualità della vita
di Nonna Abelarda

Dicevo, sullo scorso Trucioli, di questo argomento “posti di lavoro” , sbandierato in modo apodittico, rifiutando qualsiasi ulteriore considerazione, e facevo alcuni ragionamenti sui nostri politici locali, su eventuali colpe, giustificazioni, proposte di miglioramento. Guarda caso, in questi giorni la classifica del Sole 24 Ore, sul gradimento che i cittadini

hanno di chi li amministra, dimostra quanto sia critica la situazione qui in Liguria;  ma le destre frenino i retorici strilli, nella classifica nazionale si vede chiaramente che non conta il colore politico, quanto la persona e le sue azioni, la stima che riesce a riscuotere, la capacità (lo dice l’articolo a commento dei dati) di ascoltare direttamente  gli elettori e andare anche contro il proprio partito e coalizione, se necessario.  

 Non di politica immagine o di discorsi ispirati, ma di fatti positivi e di concretezza, specie in ambito locale. In ogni caso, al di là di tante considerazioni (non è questa la sede, o perlomeno, non lo scopo di questo articolo) si evince chiaramente come il consenso tanto sbandierato dalla minoranza rumorosa, dalla coalizione politico-affaristica che spesso gestisce anche l’informazione, sia tutt’altro che reale, che i malumori sui progetti contestati siano una pentola ormai in ebollizione. Ragione di più sarebbe per farsi il famoso esamino di coscienza e tentare cambiamenti di rotta, prima che lo scollamento fra cittadini e politica diventi frattura insanabile e gravissima.

Il fondamentale argomento dei posti di lavoro. Subito dopo il numero, perché è chiaro che una società ad alta disoccupazione non può essere considerata sana, viene però come importanza la qualità. Qualità che si misura attraverso diversi parametri: stabilità, reddito, garanzie sindacali, gratificazione, qualificazione, possibilità di miglioramento e crescita. Logico che un valore ottimale di tutti sia utopia, ma certo uno solo non compensa gli altri: così un lavoro strapagato, ma alienante, ripetitivo, o pericoloso, alla lunga non è il massimo, né lo è uno ad altissima professionalità, appagante ma precario e scarsamente o per nulla retribuito, come ce ne sono molti purtroppo nella ricerca, nella conservazione e nella cultura.   L’ideale sarebbe un giusto mix di queste caratteristiche. Non si può dare una definizione esaustiva, ma si può procedere per esempi, penso condivisibili. Fare l’operaio alla Thyssenkrupp, non è un buon lavoro. Essere precario a quarant’anni nella scuola, licenziato a giugno, oppure laureato nei call center, oppure commesso a chiamata nei franchising, non è un buon lavoro.

Per tornare a noi, visto che su certe tristi realtà nazionali di scuole e call center i nostri enti locali hanno scarso potere, lavorare a Ferrania fino a qualche anno fa era un ottimo lavoro, un buon esempio di quanto sopra, aggiungendoci aggiornamenti, corsi, viaggi e trasferte, comodi alloggi per gli esterni, persino un apparato dopolavoristico di enorme valore: mancavano cose come l’asilo nido aziendale, e poi si poteva parlare di realtà eccezionalmente avanzata, da paese scandinavo. Ora sospetto invece che ci si avvicini pericolosamente a situazioni tipo fonderia torinese, almeno quanto ad ambiente di lavoro. Questo può essere preso a simbolo del processo di involuzione generale: ma se andiamo a elencare mentalmente tutti i tipi di lavoro (neppure numericamente elevati nel complesso) che, in prospettiva,  offrono i vari progetti in corso d’opera nella nostra zona, ne troveremo ben pochi che superino l’esame qualità. O poco retribuiti, o precari, o poco qualificati (la stragrande maggioranza), e così via. Ecco il quadro.

Ma niente è ineluttabile, come vorrebbero farci credere per tenerci buoni, e anzi abbiamo tutti i diritti di chiedere un’inversione di tendenza, di cui si vedrebbero tutti i vantaggi.

Perché le persone hanno il diritto di aspirare a una buona qualità della vita, il diritto alla felicità, direbbe la Costituzione americana.

Attenzione, non l’aspirazione, non il sogno, ma il diritto.

E per quanto possa pensarne qualcuno, non siamo nell’utopia, ma sono scenari reali quelli che si possono tracciare. Migliorare la qualità del lavoro significa migliorare la qualità della vita di molte persone e famiglie, e di conseguenza, tutto il terziario e i servizi collegati, l’ambiente cittadino e naturale, e di conseguenza, la società. E di conseguenza, il progresso (quello vero!) , reale e duraturo, e di conseguenza, il futuro per tutti.  

Vi pare poco?

Poi non dobbiamo dimenticare il fattore impatto ambientale, sempre più pesante in qualsiasi progetto, vista la situazione drammatica di inquinamento e consumo di territorio, non compreso nei parametri di cui sopra ma altrettanto importante da valutare, nel creare posti di lavoro.

E allora, temo che anche i progetti del savonese che nei vari criteri ottenevano striminzite sufficienze, crollerebbero a zero, aggiungendo questo punto di vista. Un disastro totale e irreversibile.

Ma vado a spiegare meglio, nella pratica,  il circolo virtuoso di cui sopra. In una situazione di buoni posti di lavoro, le persone, le famiglie, sono soddisfatte, si sentono sicure, dispongono di denaro a sufficienza per acquistare e ristrutturare case dignitose, rispettando criteri di risparmio energetico, privilegiando nuove tecnologie. Il patrimonio edilizio si riqualifica naturalmente, senza picchi assurdi di catapecchie, quartieri dormitorio, cementificazioni a tappeto o deliranti case di lusso. Si è propensi all’acquisto anche non necessario, si spende piacevolmente per vestiti, generi alimentari, arredi, preferendo bei negozi con proposte interessanti e originali a prezzi ragionevoli, magari con un occhio al biologico e al mercato etico, alla tecnologia utile e non ai gadget, a internet più che al telefonino. Lavoro qualificato significa persone qualificate, istruite, perciò intellettualmente aperte e curiose, propense all’acquisto di libri, alle iniziative culturali, turistiche sostenibili, escursionistiche, sportive. A qualificare anche il tempo libero. Attente al patrimonio ambientale e culturale, all’entroterra come ai musei, al mare e alle coste come  all’architettura e all’archeologia, alla musica come alla pittura. Si crea altro lavoro, dipendente o in proprio, a cascata. Si crea novità, entusiasmo, innovazione, conservazione.

In questo quadro di tendenza le città tendono a rimanere vitali, più belle, più pulite, più vivibili. E ad attirare inevitabilmente turismo esterno a incrementarne la redditività. Le scuole tendono a migliorare e l’istruzione a crescere proprio in base alle esigenze dirette del territorio. Arriva  gente più giovane, che fa figli, e la stratificazione della comunità si vivifica.

Ora il quadro opposto: lavoro scarso, dequalificato eccetera. La gente si accontenta delle case che può, così come sono, contraendo onerosi mutui che fatica a onorare, o pagando affitti altrettanto capestro. Con la conseguenza di tristi rinunce, case riimmesse sul mercato a beneficio di speculatori e tenute vuote come spelonche, necessità di costruire affannosamente altri quartieri popolari sempre più squallidi. Si spende poco, solo il necessario, facendo caso al prezzo. Per cui il negozietto che propone magari merci più qualificate, prodotti biologici, oggetti più belli a prezzi medi va deserto ed è costretto a chiudere.

Ci si accalca in macchina, tristi e ingrugnati, in centri commerciali sempre più ipertrofici, sempre più squallidi, dove trovano lavoro al più  altrettanto rassegnati e apatici commessi, a fare i conti con un portafoglio magro, a compensare con l’acquisto di carrellate di merci scadenti, magari importate da paesi dove la gente sta ancor peggio di noi, contribuendo a mantenerla in quelle condizioni e a devastare ancor più l’ambiente. Ci si fa martellare da pubblicità idiote, ci si sente inadeguati e nel tentativo disperato di colmare vuoti non chiari a noi stessi ci si indebita per gadget tecnologici ipertrofici e inutili, per auto gigantesche che non possiamo permetterci ma gratificano il nostro ego e il nostro apparire, destinate a ingolfare sempre di più il traffico di città già intasate e asfissiate, caotici ammassi di architetture contrastanti, cieli e mari inquinati da bisogni inutili. L’ecologia è un lusso fuori portata, visto persino con odio. E il turismo “buono”, quello sensibile, che porta soldi e investimenti e benessere,  scappa via, a gambe levate, verso lidi meno contaminati.

Si invecchia, sempre più acidi, razzisti, chiusi, assistiti da stranieri che mal si tollerano e che non si inseriscono armonicamente nel contesto. Si sopravvive sulle rendite di famiglia, sulle pensioni degli anziani. I ragazzi abbandonano la scuola, visto gli esempi di precari delusi che hanno intorno, professori in primis. Chi glielo fa fare di studiare, visto che senza raccomandazioni o reti di intrallazzo un laureato resta a spasso? L’ignoranza avanza. Per compensare gli abbandoni e conquistare alunni (la famigerata “concorrenza” fra istituti) si tenta di rendere le scuole più facili, sfornando impreparati diplomati. I giovani o accettano una vita di semiparassitismo e assistenza, o se ne vanno, specie i più bravi e svegli. Impoverendo ancor di più la società e le sue prospettive.

Poi c’è l’altra faccia. In una società di queste tendenze,  pochi, pochissimi eletti hanno tantissimo. Da non saper più che fare del denaro, da non saper più dove metterlo. Di tanto in tanto vediamo gli eccessi (schifosi, indegni) dei nuovi ricchi russi, esaltati, purtroppo, nei tg, esempio di estremo squilibrio. Ma anche qui da noi ci stiamo avvicinando.

E allora prosperano i negozi di lusso. Non si sa più quali beni, quali merci inutili ma costose offrire per gratificare queste persone. La cultura di solito non interessa, se non come gadget a sua volta o passerella mondana. Rimangono solo i beni materiali, sempre più richiesti, sempre più volgare ostentazione. Anche case, sì, perché no? Perché averne una sola, due, tre se Berlusconi ne ha cento? Villette ai tropici, attici di lusso, chalet di montagna… non basta, no, bisogna offrire di più, qualcosa di nuovo, ipertrofico, che sia ancora più ostentazione, ancor più inutile, ancora più schiaffo alla miseria.

Palazzoni di fronte al mare, sì, con vista stupenda… No, ancor di più, grattacieli direttamente sul mare…

Non vi ricorda qualcosa, questo, e il secondo scenario non vi suona familiare? Non ci si rende conto, però, che se questa minoranza assoluta prospera indisturbata, è per la collaborazione indiretta dei tanti, troppi “poveracci” , veri idioti, che anziché prendere coscienza dei propri civili diritti e di essere dalla parte di chi ha tutto da perdere, preferiscono riscaldarsi alla luce riflessa dei ricchi, pensando che basti guardarli in tv, votarli magari, per partecipare dei loro beni, imitandoli in piccolo e indebitandosi fino al collo.

Questo è il quadro, ma mi rendo conto che ho un po’ deviato dal discorso iniziale.

Per tornare a noi, prima di proseguire la prossima volta con esempi pratici di lavoro di qualità, propongo di farci un piccolo esercizio mentale, come compito.

In una retta ideale che vede a un estremo la Finlandia, esempio virtuoso di società tecnologica, di benessere diffuso e qualificato, di cultura (a parte le patetiche battute sulle renne del nostro squallido ex-premier),  e all’altro estremo un qualche paese asiatico con le persone segregate in fabbriche-lager e private dei diritti, noi, come Savona, come Italia, dove siamo piazzati? E in quale direzione stiamo andando?

   Nonna Abelarda