Solo lo Stato ha il diritto di stampare moneta. Abdicando a tale diritto, lo Stato diventa servitore e i suoi amministratori servi di chi tale diritto ha usurpato, cioè i banchieri.
007 GOLDMAN

Marco G. Pellifroni

C’è di che rallegrarsi: Gianni Letta, il “Richelieu della politica italiana”, il paziente e fine tessitore nell’ombra delle più grandi operazioni diplomatiche trasversali degli ultimi lustri, finalmente ha fatto una scelta di campo: è entrato a far parte della esclusiva cerchia del potere finanziario, diventando membro dell’advisory board della banca d’affari straniera più presente in Italia: la Goldman-Sachs.

Leggo di questa investitura su La Stampa del 19 giugno, che riporta in toni trionfalistici particolari che, dalla mia ottica, appaiono invece come uno scandalo in più (tanto, sfogliando la stessa Stampa, se ne scopre uno per pagina). Si elogia la G-S come scuderia di talenti, che, attraverso una “porta girevole”, garantisce l’accesso alle più alte cariche dello Stato italiano. Niente di male, anzi, se a tale compito sopperisse una prestigiosa università; ma la G-S è tutto tranne che questo: è una fucina in cui si temprano dirigenti orientati verso la massimizzazione dei profitti, a vantaggio della G-S stessa. Del tutto naturale, vista la natura prettamente privatistica della G-S; la quale però è anche comproprietaria dell’altrettanto privata Federal Reserve americana, unione di banche private americane (già elencate in mio precedente articolo) che “prestano” al Governo USA i dollari di cui quest’ultimo dispone, che tutti credono pubblici, mentre sono in realtà molto privati.  

In questa fucina global, può esserci spazio per gli interessi del popolo italiano? Io penso di no, a giudicare dal tentativo, da parte di G-S, recentemente scoperto dall’Agenzia delle Entrate di Pescara, competente in questo campo, di scippare € 200 milioni in rimborsi fasulli (assieme ad altri € 400 milioni da parte di altre banche d’affari sempre facenti parte del cartello che possiede la Federal Reserve). In effetti, queste banche d’affari, gli affari sanno farli, eccome, ma a proprio esclusivo vantaggio, e non precisamente trasparenti. E Letta non è il solo board advisor della G-S: un altro è Mario Monti, ex-commissario europeo all’anti-trust; altri sono stati, in anni recenti, Romano Prodi, Massimo Tononi, vice-ministro alle Finanze, Mario Draghi (vice-presidente e responsabile per l’Europa nel periodo della suddetta truffa) e oggi governatore di Bankitalia. E, uscendo dall’Italia, lo sono o sono stati l’ex-presidente della Banca Mondiale Paul Wolfowitz (ex vice-ministro del Tesoro USA), il suo successore Robert B. Zoellick, il ministro del Tesoro USA Henry Paulson. Insomma, una girandola di personaggi che passano con estrema disinvoltura da cariche private a pubbliche e viceversa. Con quale riguardo per l’interesse collettivo lo lascio immaginare a chi mi legge.

La Stampa riserva un trafiletto alle “magnifiche sorti e progressive” di G-S e degli uomini d’oro che hanno la fortuna di accedervi. Il trafiletto è intitolato “Tempio d’affari”, e in effetti la banca è d’affari non solo di nome: “ha chiuso il 2° trimestre con utili a $ 2,33 miliardi, su un fatturato di € 10,1 miliardi… La sua quotazione in borsa è di € 234, con una crescita del 4% nel trimestre.” Quale attività, lecita, può sfoggiare un così aureo passato e rosee prospettive per l’avvenire?

La risposta è: nessuna. Ma l’essere comproprietari della Federal Reserve significa godere dei lauti dividendi che loro competono per gli interessi sul “debito” del governo USA nei confronti della Fed stessa per la stampa di tutti i dollari circolanti (circa il contributo degli affari italiani alla composizione del “gruzzolo” non sono noti i dettagli). D’altronde, anche essere comproprietari della BCE tramite Bankitalia comporta dividere gli analoghi interessi che la BCE accolla a tutti gli Stati dell’eurozona per il privilegio di acquistare le sue variopinte banconote. Se, nonostante io batta su questo tasto da mesi, il meccanismo fosse ancora oscuro a qualcuno (anche se nessuno mai scrive a Trucioli per avere spiegazioni su un meccanismo così perverso, quasi in un processo di rimozione collettiva), cerco di spiegarlo meglio con una sorta di

Parabola

Un secolo dopo la fine del diluvio universale, alcune tribù si trovano a produrre merci diverse, in conformità alla natura dei diversi territori in cui sono insediate. Iniziano a scambiarsi merci varie, onde coprire l’arco dei rispettivi bisogni esistenziali. Si instaura così un’epoca di baratto.

Alla lunga però risulta oltremodo scomodo lo scambio di merci così eterogenee tra loro, e il calcolo dei rapporti di valore complica le operazioni. Un giorno, le tribù si riuniscono e decidono di usare come base di scambio un unico prodotto, disponibile a tutti e di comune necessità: il sale. Ciascuna tribù impiega il medesimo lavoro umano e strumentale per procurarselo, e così la proposta viene approvata all’unanimità. C’è addirittura chi, in seguito, si dedica alla sola estrazione del sale, usandolo come merce di scambio per pagare l’acquisto di altri prodotti, in un rapporto comunque proporzionale al tempo di lavoro speso per procurarsi il sale o qualsiasi altra merce. Qualora fossero in troppi a dedicarsi all’estrazione del sale rispetto alle necessità generali, ciò ne provocherebbe un eccesso, quindi una sua minor richiesta, quindi un suo minor rapporto di valore con le altre merci. Il mercato fungerebbe così da equilibratore e calmiere del suo prezzo. (Si noti che il sale ha veramente funto da “moneta” nell’antichità).

Tutto procede regolarmente finché un giorno una tribù scopre nel suo territorio l’oro e propone di adottarlo come valore di riferimento, anche in considerazione del fatto che non è deperibile né consumabile (come il sale), occupa un infimo spazio e quindi ben si presta alla circolazione e ad una più sicura custodia; insomma è ideale per il conio in monete. Se ne fissa il valore in base alla rarità e ai costi di estrazione e si ripete qui lo stesso processo virtuoso prima descritto per il sale. Un giorno, per rendere gli scambi ancora più maneggevoli, la tribù con la miniera aurea propone di mettere in circolazione delle ricevute cartacee, rispecchianti il valore di un’unità di peso d’oro: si decide di fissarla in un’oncia. I foglietti sono garantiti dal deposito, in un forziere, di un ammontare di monete, o lingotti, esattamente corrispondenti al totale delle note cartacee circolanti. Le altre tribù hanno il diritto di verificarne la corrispondenza fisica nel forziere  in qualsiasi momento.

L’accordo tra tribù è che si monetizzi nuovo oro soltanto in proporzione alla nuova ricchezza prodotta, né un’oncia di più, né un’oncia di meno: insomma, l’oro che va ad aggiungersi nel forziere a garanzia delle nuove (banco)note emesse deve essere equipollente alla crescita della produzione; in caso contrario, si instaurerebbero fenomeni di inflazione o deflazione. In questa situazione le (banco)note non sono propriamente di nessuno, in quanto riflettono sia l’oro che giace a garanzia nei forzieri sia la quota di credito di ciascun cittadino nei confronti della ricchezza nazionale, in quanto frutto del suo lavoro: sono due crediti opposti che si elidono a vicenda e le note cartacee non ne sono che una memoria contabile.

Passano i secoli, popolazione e produzione crescono, e qualcuno nella tribù “aurea” si accorge che le varie tribù difficilmente possono avere una visione complessiva delle banconote in circolo, e decidono di stamparne un po’ più del dovuto; poi ancora di più, poi in maniera tale che la quantità di oro che dovrebbe giacere nel forziere è enormemente inferiore al valore nominale delle banconote circolanti. Cominciano a determinarsi fenomeni inflattivi, anche perché molti si danno a prestare denaro a interesse, il che significa che quest’ultimo richiede l’emissione di danaro in più rispetto a quello circolante, senza corrispettiva crescita della produzione: è pura rendita parassitaria. La tribù aurea, grazie ai soldi fasulli messi in giro, si era cautelativamente dotata di un apparato militare formidabile, ed ora è quindi in grado di intimorire qualunque tribù osi alzare la cresta, al sentore della truffa, e chieda di verificare la congruità delle banconote coi lingotti. Le banconote circolanti, pressoché prive di riserva aurea a garanzia, cessano ipso facto di essere anche  proprietà della tribù “aurea” e diventano di esclusiva proprietà della cittadinanza: proprietà che le viene invece negata con la forza.   

Mettete gli uomini d’oro (goldmen) al posto della Goldman-Sachs e di tutte le banche d’affari americane, più le banche centrali, europea, giapponese e via dicendo, tutte private e possedute dalle banche commerciali dei rispettivi Paesi, e la parabola si traduce nella situazione odierna: chi osa ribellarsi e non accetta di riconoscere come moneta di suo debito una moneta che in realtà è un suo credito, quel qualcuno rischia la galera, se privato; e l’invasione di forze armate della tribù aurea (gli USA) sul proprio suolo se si tratta di una nazione (vedi Iraq, prima, e in prospettiva l’Iran, oggi), che non vuole più starci a considerare il dollaro come oro colato (che non lo sia affatto, e in misura crescente a partire dal 1971, quando Nixon abrogò d’imperio la convertibilità dei dollari in oro, lo conferma la mancata pubblicazione da parte della Fed della massa monetaria di nuova emissione, a partire dal marzo 2006); mentre alle nazioni povere, gravate di interessi schiaccianti non resta che la resistenza armata e partigiana, definita dalle nazioni rapinanti “terrorismo”.

Il denaro circolante, quindi, riflette e incorpora tutte le fatiche sopportate dai cittadini per produrre la ricchezza della nazione. Non solo: riflette anche lo stupro che l’estrazione di materie prime e la coltivazione dei prodotti agricoli, nonché le loro successive trasformazioni, producono sull’  ambiente, ossia un bene comune, il cui utilizzo giova alla comunità se fatto secondo processi reversibili, e alla voracità di banche e loro emanazioni industriali in caso contrario. Il denaro quindi è nostro, di noi cittadini che lo usiamo in sostituzione di un baratto, oggi impensabile, ma che aiuta a rendere l’idea della proprietà delle merci scambiate e delle banconote che delle prime non sono che una convenzionale rappresentanza; e che tutto sono, tranne che di proprietà di chi le stampa e che pretende di “prestarcele” con l’aggiunta, su un prestito inesistente, di interessi comunque usurari. Pertento, solo lo Stato ha il diritto di stampare moneta (un diritto oggi arbitrariamente limitato al conio delle monete metalliche, che lo Stato, prono ai voleri dei banchieri, supinamente accetta!). Abdicando a tale diritto, lo Stato diventa servitore e i suoi amministratori servi di chi tale diritto ha usurpato, cioè i banchieri.

Ora, che un uomo con le responsabilità pubbliche che ha avuto e che continuerà ad avere, come Gianni Letta, diventi anche consulente dorato di una banca d’affari, così come lo sono stati l’attuale presidente del Consiglio Prodi e quant’altri intorno a lui, non è motivo di tripudio per i normali cittadini, proprietari di una moneta che queste banche d’affari pretendono essere loro, lucrandoci sopra quegli utili astronomici che più sopra ho evidenziato. E’ anzi motivo di profonda inquietudine, rabbia, tristezza, ripulsa.  

Marco Giacinto Pellifroni                                                                     24 Giugno 2007