UNO SCRITTORE POLITICO
Bruno Marengo, spotornese classe 1943: un politico prestato alla scrittura o uno
scrittore alla politica?
La nostra risposta è molto semplice: meglio un Marengo totalmente scrittore.
Perchè l'idea che i suoi nuovi impegni politici, è stato appena eletto sindaco
di Spotorno, possano limitarne la produzione letteraria, appare in sé negativa
per l'intera cultura ligure.
Marengo arriva relativamente tardi alla letteratura, dopo un lungo apprendistato
da “lettore”, appassionato di molti generi, ma soprattutto in grado di
assimilare la lezione dei grandi poeti lirici della nostra terra: in particolare
Sbarbaro e Barile.
Le sue opere, tutte tratte da una trasfigurazione esistenziale di tipo verista,
presentano il sapore della Liguria di Riviera: fanno venire in mente il nostro
arco di terra, sotto il pallido sole d'inverno, quando i paesi, avvolti
nell'azzurro del loro paesaggio, appaiono immobili, ma vigili, nell'attesa degli
eventi.
Sono gli eventi della piccola gente, la quotidianità, i gatti che attraversano
la strada, gli amori dell'iniziazione sentimentale: non c'è, però, bozzetto in
Marengo ma ricerca curata della personalità degli attori che mette in scena e
degli sfondi sui quali agiscono la recita della loro vita.
Dall'esordio con “A Spotornoo” dedicato alle mitiche estati degli anni' 60, la
scrittura di Marengo è via, via maturata, passando, soltanto per ricordare i
passaggi principali di una produzione copiosa, all'immaginario orizzonte su cui
sorge la “Cattedrale di Apenac”, ai personaggi di “vita” che frequentano “Madame
Reverie”, fino alla trama sottile che tiene avvinto il lettore che caratterizza
“Il mare che viene e che va”, l'ultima opera uscita, in ordine di tempo, da uno
scrittore che si è ormai affermato come uno dei più importanti in Liguria.
Ettore Scola
Nasce nel 1931 in terra campana, a Trevico (Avellino), fa l’esperienza
universitaria (giurisprudenza) e contemporaneamente si impegna nel campo del
giornalismo.
Si destreggia con capacità nel campo della sceneggiatura (Il sorpasso di Dino
Risi). È conosciuto come uno dei più prolifici ed attenti registi del cinema
italiano, di quello però più vicino alla commedia all’italiana con graffianti
caricature dei personaggi.
Utilizza il mondo e la realtà che lo circonda per far riflettere sulla vicenda
umana, sia in termini di evo/involuzione individuale e collettiva sia in termini
di costume. Dopo due film sull'alienazione con protagonista Mastroianni, Dramma
della gelosia [(1970) storia della decadenza di un muratore, che ha ucciso
involontariamente l'ex-amante e deve scontare un periodo di carcere, ma ne esce
matto], e Permette? Rocco Papaleo [(1971) un semplice e onesto emigrato
siciliano che a Chicago viene coinvolto in storie di vizio e delinquenza, alla
fine delle quali si dà al terrorismo], Scola approfondisce l'argomento girando
un film-inchiesta semidocumentario sulla condizione degli emigrati meridionali a
Torino, Trevico-Torino Viaggio nel Fiat - Nam (1972), un po' Olmi industriale un po' Godard
sessantottesco.
Offre allo spettatore scorci incredibili (pensiamo a Brutti sporchi e cattivi
del 1976) degli anfratti della grande città o della provincia (C’eravamo tanto
amati del 1974), nell’arco di tre decenni di vita vissuta o sognata.
La terrazza (1980) è un ritratto della borghesia intellettuale vent'anni dopo
la dolce vita, dei suoi riti famelici di cibo e di sesso, vuoti e insulsi,
trasportati da Scola sulla terrazza romana che ospita da vent'anni le cene party
di intellettuali di sinistra, politici, giornalisti, scrittori, produttori,
sceneggiatori a cui chiedono soltanto testi leggeri che facciano ridere, attori.
Sono tutti cinquantenni falliti, abbandonati moralmente e qualche volta anche
fisicamente dalle mogli, più o meno depressi da ossessioni e frustrazioni (un
funzionario della televisione si suicida lasciandosi morire di fame), più o meno
afflitti e consolati dal cerimoniale mondano.
Sempre impegnato politicamente, vicino alla figura di Ingrao, ha voluto anche
rappresentare le vicende della trasformazione del PCI, con film come Mario,
Maria e Mario del ’93, film poco riuscito (“pettinato” diranno i critici)
scritto con la figlia Silvia, ingraiana pure lei.
In un film come La famiglia del 1987, storia di una famiglia della media
borghesia attraverso le tappe della vita di un uomo. Distaccato e malinconico
cronachista, Scola tocca i vertici esistenziali della sua carriera, e la visione
marxista dell'irrazionale borghese si lega ad una più assoluta visione
dell'irrazionale umano.
Straordinario, lento e claustrofobico nell’impossibilità umana al cambiamento è
Una giornata particolare, del 1977, dove sullo sfondo dell'epoca fascista
(l’incontro a Roma di Mussolini ed Hitler) descrive la vana relazione fra una
casalinga sfruttata e un omosessuale perseguitato, lei destinata a tornare fra
le braccia brutali del marito e lui destinato ad essere deportato, dopo una
fugace quanto improduttiva scena d’amore. Troviamo un intimismo crepuscolare che
sfuma in un poetico omaggio agli umiliati.
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, nata ad Alessandria nel 1876 e morta a Roma nel 1960, fu poetessa di teso e raffinato lirismo.
Dalla vita inquieta e passionale (spicca, nella sua biografia, la tempestosa relazione con il poeta Dino Campana) la Aleramo si dedicò, fin dagli esordi, al riscatto sociale dei ceti più umili: accanto a Giovanni Cena, partecipò all'opera di alfabetizzazione dei contadini dell'Agro Romano.
Esordì nel 1906 con un romanzo programmaticamente femminista, Una donna, dove già si intrecciano le componenti principali della sua personalità: la sensibilità sociale e la prorompente carica autobiografica ed individualistica.
Questo conflitto interiore segnò anche il resto della sua opera, sia in prosa (Il Passaggio del 1919, Amo dunque sono del 1927) sia le raccolte di versi (Selva d'amore del 1947 e Luci della mia sera del 1956).
Proprio da Luci della mia sera, pubblichiamo “E' il lavoro, oggi l'aurora”, apparsa per la prima volta nel 1950 sulla rivista culturale del PCI “Rinascita”.
Oggi L'aurora
Entro il mio cuore
la tortura, oh tutta la tortura
del mondo patita
geme ch'io in parole la redima,
e io perdutamente balbetto,
il mio cuore ancora in sé sente
le infinite morti
da uomini inferte a uomini,
gli anni trascorrono
e sempre nel ricordo l'orrore
e sempre l'insostenibile vergogna
e sempre in me il gemito,
vano gemito anziché parole,
e il terrore che anche il più grande canto
vano pur esso sarebbe,
che mai l'ascolterebbe
se nuovamente domani sul mondo
la tortura infierisse
infanzia e vecchiaia insiem cancellando
e tutte le speranze?
Speranza aurora!
Chi guarda ancora l'aurora?
Mio cuore, tu lo sai!
E non è per essa che ancor batti?
Tanti e tanti e tanti,
vicino a te e lontano
ogni dì s'alzano e non armi impugnano,
o forse armi sono,
martelli, vanghe,libri
e vanno con questi lor vivi arnesi,
la terra è tutta un cantiere,
ogni dì è lavoro,
quanto lavoro su la terra intera,
da secoli da millenni
curvo era sino a ieri
ma ora di sé è fiero
s'anche duramente ancor soffre e lotta,
ben saldo nel voler mai più
guerre né torture,
nel volere il mondo
trasformato in fraterno giardino,
oh mio cuore, più non devi gemere,
abbi fede, tu vedi,
è il lavoro oggi l'aurora!
Emily Dickinson (1830 – 1886) nacque ad Amberst (Massachusetts) da una famiglia borghese. Dopo gli studi superiori trascorse tutta la vita nella casa del padre, in un volontario isolamento, dedicandosi alla lettura e a un'interrotta sperimentazione poetica.
Il suo unico canale comunicativo con il mondo esterno fu un'intesa corrispondenza, attraverso la quale intrecciò profonde amicizie ed appassionati amori.
Quando morì, solo sette delle sue composizioni erano state pubblicate.
Le sue liriche, dense ed ardite, quanto la sua vita appare priva di rilevanti avvenimenti esterni, sono considerate oggi tra le più grandi della poesia moderna.
La prima completa edizione critica è uscita soltanto nel 1955
Pubblichiamo, di seguito, questa poesia del 1862, dedicata al tema della morte, ricorrente nell'opera di Emily Dickinson.
Sentivo volare una mosca – quando morii
Sentivo ronzare una mosca – quando morii-
l'immobilità della stanza
era come l'immobilità dell'aria
tale folate dell'uragano -
gli occhi attorno – si erano prosciugati
e i respiri si raccoglievano fermi
per l'ultimo assalto – quando il re -
si sarebbe rivelato – nella stanza -
lasciai in eredità i miei ricordi – diedi via
ogni parte di me che fosse
assegnabile – e poi avvenne:
si interpose una mosca -
come azzurro – incerto incespicante ronzio -
tra la luce – e me -
e poi le finestre mancarono – e poi
non potei vedere di vedere.
Cap 21 In quel momento
apparve la volpe. "E' una cosa da
molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>..." "La mia vita e' monotona. Io do la caccia alle
galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si
assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio percio'.
Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sara' illuminata. Conoscero' un
rumore di passi che sara' diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi
fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi fara' uscire dalla tana, come una
musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu' in fondo, dei campi di grano? Io non
mangio il pane e il grano, per me e' inutile. I campi di grano non mi
ricordano nulla. E questo e' triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro.
Allora sara' meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e'
dorato, mi fara' pensare a te. E amero' il rumore del vento nel
grano..." … Cosi' il piccolo principe addomestico' la volpe. "Ci
guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". |
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Dino Campana, nacque a Marradi (Firenze) nel 1885. Visse una giovinezza travagliata, che lo portò ad interrompere gli studi di chimica all'Università di Bologna e ad un ricovero al manicomio di Imola (1906).
Dopo una serie di vagabondaggi per il mondo (Svizzera, Belgio, Russia, Argentina) svolgendo i mestieri più disparati ed un altro ricovero in clinica psichiatrica (1909: Firenze), tentò di riprendere senza fortuna gli studi universitari.
Nell'autunno del 1913 portò a Firenze per consegnarli ad Ardengo Soffici e a Papini il quadernetto dei suoi “Canti Orfici”, ma nella primavera successiva fu costretto a riscriverli perché Soffici aveva perduto il manoscritto.
Nello stesso anno (1914) Campana fece pubblicare la sua opera prima, a proprie spese, da un tipografo di Marradi.
La tumultuosa relazione con la poetessa Sibilla Aleramo (1916 – 1917) rappresentò il preludio al definitivo ricovero nel manicomio di Castel Pulci, dove il poeta morì nel 1932.
Molti dei suoi scritti, composti nel periodo del ricovero, uscirono postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti Orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto fiorentino (1960).
Campana fu l'ultimo esponente di una vivisità enfatica, di tradizione carducciana, che assunse, nei suoi versi, le connotazioni dell'allucinazione, della fantasia onirica, della trasfigurazione delle immagini.
Pubblichiamo un frammento di “Genova”, dai “Canti Orfici” (Campana abitò a Genova nel 1912, in piazza Sarzano e Camillo Sbarbaro ricordava di averlo incontrato, un giorno, proprio in quel luogo).
Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l'anima partita
Che tutto a lei d'intorno era già arcana-
mente illustrato dal giardino il verde
Sogno nell'apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udii canto udii voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblio parvero ai proni
Umani ancora largire: dai segreti
Dedali uscii: sorgeva un torreggiare
Bianco nell'aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni del mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio
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Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi nel la
lavagna cinerea
Dilaga la piazza al mare che addensa le navi.......
28/12/2004 la scrittrice Susan Sontag
Divenne
famosa negli anni Sessanta
per la sua passione femminista e le sue
lotte contro
la guerra in Vietnam
NEW
YORK
- La scrittrice
americana Susan Sontag è deceduta
a New York. Ne ha dato notizia il Memorial Sloan-Kettering
Cancer
Center dove era ricoverata per leucemia. La Sontag, nata a New York 71 anni fa, divenne famosa negli anni Sessanta per la sua passione femminista e le sue lotte contro la guerra in Vietnam. Nel suo lavoro di scrittrice si amava definire una «moralista ossessiva» e una «zelota della serietà». Fra le sue opere più note uno studio del 1964 sull'estetica dell'omosessualità dal titolo «Notes on Camp». Forti le sue prese di posizioni in difesa della libertà di espressione dopo la fatwa di Khomeini contro lo scrittore indiano Salman Rushdie. Nel 1993 andò a Sarajevo sconvolta dalla guerra e produsse lo spettacolo teatrale «Aspettando Godot».
(Corriere
della sera on line del 28/12/2004)
Un articolo del New York Times
Eugenio Montale, nato a Genova nel 1896, morì a Milano nel 1981.
Richiamato al fronte nel
1917, dopo la guerra si trasferì a Firenze, dove nel 1928 fu nominato direttore
del Gabinetto scientifico – letterario Viesseux.
E' fra i firmatari del manifesto antifascista (1925) promosso da Benedetto Croce, e frequenta il celebre caffè delle “Giubbe Rosse”, ritrovo dell'avanguardia culturale italiana dell'epoca.
Collabora a numerose riviste fiorentine, e pubblica, nello stesso anno la sua raccolta forse più nota, “Ossi di Seppia”.
Nel 1939 esce “Occasioni”, nel 1943 “Finisterre”.
Aderisce al Partito d'Azione, e nel 1948 entra al Corriere della Sera, svolgendo anche attività di critico musicale.
Fra le altre raccolte, la bufera (1956), Satura (1971), e Quaderno dei quattro anni (1977).
Nel 1975 gli viene conferito il Premio Nobel.
Legata ad una poetica del “negativo”, l'opera in versi di Montale si sviluppa in un linguaggio chiuso e però di intensa indagine psicologica, per immagini lampeggianti e di stoica modernità.
Fra le sue prose, la “Farfalla di Dinard” (1956) e Auto da fè (1966).
Sull'opera di Montale (come degli altri grandi poeti del 900 italiano: da Campana a Sbarbaro ad Ungaretti) è recentemente uscito, presso le edizioni di San Marco dei Giustiniani, la ristampa del celebre saggio “Otto Studi” di Carlo Bo, al quale rimandiamo coloro volessero impegnarsi in un serio approfondimento critico.
In questa occasione pubblichiamo:
“Lo sai: debbo riperderti e non posso” da Occasioni del 1939
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzio lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia sui vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.
Le foto sono tratte da un sito web molto completo che consigliamo di esplorare: http://art.supereva.it/eugeniomontale/index.html
Angiolo Barile, raffinatissimo poeta e prosatore, nato ad Albissola Marina nel 1888 ed ivi deceduto nel 1967, deve essere ricordato come l'interprete di una “melanconia” tipica della nostra terra, di una visione della vita che rispecchia l'essenza delle grigie giornate della Riviera d'inverno.
Collaboratore di “Solaria” e fondatore con A:Grande di “Circoli” scrisse versi di intensa e dolorosa religiosità, in uno stile fortemente simbolico.
Ricordiamo la raccolta di Primavera (1934) ed ancora Quasi sereno (1957) e Poesie (1965).
In prosa ha lasciato: Al paese dei vasai, uscito postumo nel1970.
Uomo politico, dotato di grande rigore morale, fu Presidente della Provincia di Savona negli anni'50: gli è stata dedicata la sala delle adunanze del Consiglio, nel Palazzo Nervi.
Particolarmente intenso fu il suo sodalizio con Eugenio Montale: recentemente il carteggio intercorso tra i due grandi poeti tra il 1920 ed il 1957 è stato raccolto in volume, a cura di Costa ed Astengo, e pubblicato (2002) per i tipi di Rosellina Archinto.
Pubblichiamo di seguito “Neve” (da Poesie 1965)
Da noi la neve è festa
rara. Quando sorprende
il paese che dorme
ci si risvegli attoniti, in un chiaro
ch'è d'altro cielo: una calma vacanza.
Tra le barche che fan siepe
lungo la strada
orme vanno alla spiaggia, il mare fuma
lontano – a tratti dagli orti uno sparo.
Esco un mattino in quel candore e vedo
- a un passo su un'isola di luce -
una fanciulla, fiore
della contrada,
che legge, ferma, una lettera (giunta
da che paese colorato?).
Ignara
della gente per la via,
e di me che la guardo, e della neve
che la incornicia,
legge e gli occhi le ridono. Li leva
a un punto, muove
verso quel punto le labbra, ecco parla,
con uno parla che le solo vede
ode lei sola come nei miracoli.
Tanta neve è caduta
da allora! Tanta neve
fradicia e pesta ho sul cuore. Non so,
veramente non so
da che angolo incolume mi ride
quella bambina.
Milena Milani, nata a Savona nel 1922, va indicata, ancora oggi, come la scrittrice italiana che meglio ha saputo trasferire in una specie di “confessione in pubblico” le irrequietezze della sua condizione femminile, a partire dalla “Storia di Anna Drei” (1948) con la quale vinse il Premio Mondadori.
Seguirono “Emilio sulla diga” (1954) e la sua opera più celebre “La ragazza di nome Giulio” (1964), un romanzo incappato all'epoca nelle maglie della censura per la scabrosità dell'argomento trattato.
Da ricordare, oltre al libro “La Rossa di via Tadino” (1979) la sua intensa attività nel raccordare letteratura ed arti visive, quale protagonista della grande stagione albisolese degli anni'50 con Mazzotti, Jorn, Fontana, Lam: era il periodo della sua seconda presenza dalle nostre parti, dopo quella che ne aveva segnato la fanciullezza, in precedenza al trasferimento a Venezia all'inizio degli anni'40.
Recentemente Milena Milani ha donato alla Pinacoteca di Savona l'importante raccolta d'arte del suo compagno, Carlo Cardazzo, uno dei principali galleristi italiani recentemente scomparso.
Il
30 giugno 2004 Milena Milani riceve il premio 'Goffredo Parise' per la
narrativa per 'Venezia del cuore'.
In questa occasione pubblichiamo l'incipit di un racconto di Milena Milani, scritto in una occasione particolare: nel 1955 uscì il settimanale sportivo “Il Campione”, che tentò di unire cultura e sport in una dimensione del tutto originale per l'epoca (il settimanale era ispirato dalla redazione delle pagine sportive dell'Unità, a quell'epoca di altissimo livello letterario).
Sul n.4 della rivista, pubblicato il 10 Ottobre 1955, comparve così l'unico racconto “sportivo” di Milena Milani, di cui riportiamo le prime righe (si pensi che, in quello stesso numero, la cronaca della partita Fiorentina – Inter, terminata 0-0, fu firmata da Vasco Pratolini).
“ Stavo alla finestra tutto il tempo, e mia madre continuava a chiamarmi. “Devi studiare” diceva, “Devi fare buona figura”.
Sul tavolo i libri nuovi, comperati da poco, quelle copertine lucide di cartone, la penna, le matite, e anche un diario scolastico, che ogni giorno portava scritto quello che si doveva fare.........
.......”Non c'è niente” diceva mia madre, “questo campo offre poco, è meglio che tu studi, è sciocco perdere tempo alla finestra per guardare i gatti”.
Io lo sapevo benissimo, ma appena possibile continuavo a starci......
......Un pomeriggio mia madre uscì e nel campo vennero i ragazzi a giocare a pallone.
Vidi Michele prima degli altri, abitava in una calle poco lontana e frequentava la mia stessa classe, ma nella sezione B, io ero nella A.....
(da Michele ha fatto un goal, Milena Milani 1955)
Un indirizzo web utile: http://www.caldarelli.it/fotografia/milani.htm
IL CONTESTO STORICO NEL QUALE FIORISCE IL FUTURISMO DI F. T. MARINETTI
Le conquiste
scientifico-tecnologiche della seconda metà dell'Ottocento introducono in
Europa grandi trasformazioni.
- La diffusione del motore a scoppio e dell'elettricità, il potenziamento dei
trasporti, l'utilizzazione del telegrafo e del telefono, il grande sviluppo
della produzione industriale e dell'economia svecchiano la società che diventa
moderna.
I grandi conflitti armati sono conclusi; gli interessi degli Stati sono rivolti ad altre affermazioni.
Ma tra la fine del secolo ed i primi del Novecento nuovi orientamenti scientifici e filosofici portano a notevoli cambiamenti:
la fiducia incondizionata nella scienza e nella ragione crolla;
il determinismo positivista entra in crisi;
il relativismo di Einstein, la teoria dei "quanta" di Planck, il pensiero di Bergson fanno vacillare precedenti certezze;
tendenze nazionaliste e imperialiste da un lato (Bismarck) e rivoluzionarie dall'altro (Sorel) mettono in discussione la democrazia parlamentare;
un individualismo spesso aristocratico, rivolto a soddisfare esigenze da esteta o ad indagare nel misterioso universo interiore (Nietzsche e Freud) si fa strada di fronte a istanze operaie sempre più pressanti.
L'Italia, impegnata a risolvere i suoi problemi interni derivanti dall'unità nazionale da poco raggiunta, appare, rispetto all'Europa, arretrata economicamente e culturalmente. Qui il decollo industriale avviene all'inizio del Novecento.
In questo
contesto compare F.T. Marinetti, che aveva respirato l'aria cosmopolita di
Alessandria d'Egitto ed aveva vissuto a Parigi i fermenti di una cultura e di
una società moderne.
Dotato di vivacissima intelligenza, di temperamento vulcanico e di notevoli
risorse economiche, si propone di sconvolgere tutti i modelli definiti
"passatisti" e di "modernizzare" arte, cultura, vita,
secondo un progetto globale, che vuole provocatorio e dissacratore, per imporlo
così all'attenzione, e che chiamerà Futurismo. Il
20 febbraio 1909 Marinetti pubblica a Parigi sul Figaro il Manifesto di
fondazione del Futurismo.
I futuristi fanno grande opera di divulgazione del loro pensiero diffondendo
continuamente manifesti e adottando il criterio dell'insistente presenza
attraverso tutti i canali possibili.
Il nome del Futurismo corre così in tutto il mondo; mai scuola, ma movimento da far conoscere con una capillare informazione, esso si identifica come fenomeno di avanguardia. I manifesti futuristi sono tradotti in Germania, Russia, Giappone e in molti altri paesi.
Via via che si
diffonde nelle varie nazioni il Futurismo assume anche caratteri originali. Il
movimento riveste particolare importanza in Russia. Natalia Gontcharova nel 1911
conosce i manifesti del Futurismo che definisce l'arte dell'avvenire. Nascono l'egofuturismo
(1911) con Severianine e il cubofuturismo. (Nel 1913 i cubofuturisti organizzano
degli eventi ispirati alle "Serate futuriste").
La sua diffusione interessa poi varie province dello stato sovietico, la
Polonia, la Jugoslavia. Negli anni 1912-13 i pittori futuristi espongono a
Parigi, Londra, Bruxelles, l'Aja, Amsterdam, Amburgo, Monaco, Berlino, Vienna,
Rotterdam e Chicago.
La Francia e l'Inghilterra ospitano spettacoli futuristi italiani e danno vita
ad esperienze futuriste. Si ricordano fra le iniziative la mostra di Boccioni a
Parigi e la pubblicazione del manifesto della lussuria di V. de Saint Point,
destinato a suscitare forti reazioni. La Closerie de Lilla diventa un centro di
propaganda futurista.
Il movimento influenza anche attività artistiche ispano-americane, portoghesi,
giapponesi.
Un aspetto, però, distingue nettamente il Futurismo italiano da quello di altri paesi. In Italia esso convive col Fascismo, anzi, salvo rare eccezioni, lo supporta, mentre fuori d'Italia fa prevalere la sua anima libertaria e rivoluzionaria (ad es. con Majakovskij in Russia).
Fonte documentale IE.R.RE
Roma
Cento
artigiani artisti celebri Cooperativa Vetraria et Ceramisti Futuristi Albissola
riuniti pranzo futuristi oltre facendosi interpreti intera cittadinanza
plaudenti mi pregano esprimerti loro entusiasmo et assoluta devozione
affettuosamente
Altare (Savona) 9 agosto 1932»
Fonte documentale la repubblica letteraria
Guido Gustavo Gozzano (che si fece poi chiamare soltanto Guido) nasce a Torino il 19 dicembre del 1883. Si iscrive alla facoltà di legge, ma non giunse mai a laurearsi e preferì interessarsi di letteratura seguendo all'università di Torino i corsi di Arturo Graf insieme ad un gruppo di giovani con cui successivamente costituì il gruppo dei crepuscolari torinesi.
Lo scrittore, di salute malferma, non ebbe mai un lavoro fisso, ma partecipò alla vita culturale e mondana della Torino di inizio secolo. Nel 1907 rivela la sua necessità di rifugiarsi nella poesia rifuggendo le aspirazioni mondane pubblicando La via del rifugio. Qui lontano da mire intellettualistiche, rivela la sua originalità come nei due componimenti Le due strade e L'amica di nonna Speranza.
Nello stesso anno ha inizio la sua relazione con la scrittrice Amalia Guglielmetti, ma andranno peggiorando le sue condizioni di salute che lo porteranno alla tubercolosi. Nel 1911 appare il suo libro più importante I colloqui i cui componimenti furono disposti in tre sezioni: Il giovanile errore, Alle soglie e Il reduce.
Per tutto il corso della sua vita Gozzano collaborò a giornali e riviste con recensioni letterarie, fiabe per bambini, (I due talismani 1914, La principessa si sposa 1917) e novelle (L'altare del passato 1918, L'ultima traccia 1919).
Muore a Torino il 9 agosto 1916.
tutte le poesie e le raccolte di G. Gozzano si possono trovare all'indirizzo web: http://www.liberliber.it/biblioteca/g/gozzano/tutte_le_poesie/html/
Io sono innamorato di tutte le
signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine -
le dita senza guanto -
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nïun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
C'è quella che s'informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L'una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
un'altra - il dolce crebbe -
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un'altra, con bell'arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall'altra parte!
L'una, senz'abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D'Annunzio.
Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!
Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le
signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Un mio gioco di sillabe t'illuse.
Tu verrai nella mia casa deserta:
lo stuolo accrescerai delle deluse.
So che sei bella e folle nell'offerta
di te. Te stessa, bella preda certa,
già quasi m'offri nelle palme schiuse.
Ma prima di conoscerti, con gesto
franco t'arresto sulle soglie, amica,
e ti rifiuto come una mendica.
Non sono lui, non sono lui! Sì, questo
voglio gridarti nel rifiuto onesto,
perché più tardi tu non maledica.
Non sono lui! Non quello che
t'appaio,
quello che sogni spirito fraterno!
Sotto il verso che sai, tenero e gaio,
arido è il cuore, stridulo di scherno
come siliqua stridula d'inverno,
vôta di semi, pendula al rovaio...
Per te serbare immune da pensieri
bassi, la coscienza ti congeda
onestamente, in versi più sinceri...
Ma (tu sei bella) fa ch'io non ti veda:
il desiderio della bella preda
mentirebbe l'amore che tu speri.
Non posso amare, Illusa! Non ho
amato
mai! Questa è la sciagura che nascondo.
Triste cercai l'amore per il mondo,
triste pellegrinai pel mio passato,
vizioso fanciullo viziato,
sull'orme del piacere vagabondo...
Ah! Non volgere i tuoi piccoli piedi
verso l'anima buia di chi tace!
Non mi tentare, pallida seguace!...
Pel tuo sogno, pel sogno che ti diedi,
non son colui, non son colui che credi!
Curiosa di me, lasciami in pace!
Desiderate più delle devote
che lasceremmo già senza rimpianti,
amiche alcune delle nostre amanti,
altre note per nome ed altre ignote
passano, ai nostri giorni, con il viso
seminascosto dal cappello enorme,
svegliando il desiderio che dorme
col baleno degli occhi e del sorriso.
E l'affanno sottile non ci lascia
tregua; ma più si intorbida e si affina
idealmente dentro la guaina
morbida della veste che le fascia...
Desiderate e non godute - ancora
nessuna prova ci deluse - alcune
serbano come una purezza immune
dalla folla che passa e che le sfiora.
Altre, consunte, taciturne, assorte
guardano e non sorridono: ma sembra
che la profferta delle belle membra
renda l'Amore simile alla Morte;
ardenti tutte d'una febbre e cieche
di vanità; biondissime, d'un biondo
oro, le cinge il pettine, secondo
l'antica foggia delle donne greche.
Per altre, il nodo greve dell'oscura
treccia è d'insostenibile tormento;
sembra che il collo, esile troppo, a stento,
sorregga il peso dell'acconciatura;
l'opera dei veleni in altre adempie
un prodigio purpureo: le chiome
splendono di riflessi senza nome
dilatandosi ai lati delle tempie...
Belle promesse inutili d'un bene
lusingatore della nostra brama,
quando una sola donna che non s'ama
c'incatena con tutte le catene;
quando ogni giorno l'anima delusa
sente che sfugge il meglio della vita,
come sfugge la sabbia tra le dita
stretta nel cavo della mano chiusa...
Le incontrammo dovunque: nelle sere
di teatro, alla luce che c'illude;
la bella curva delle spalle ignude
ci avvinse del suo magico potere;
e quando l'ombra si abbatté su loro
addensandosi cupa entro le file
dei palchi, il freddo lampo d'un monile
fu l'indice del duplice tesoro.
E le avemmo compagne, ma per brevi
ore, in vïaggi taciti, in ritorni,
le ritrovammo dopo pochi giorni
nei rifugi dell'Alpi, tra le nevi;
le ritrovammo sulla spiaggia, al mare,
dove la brama ci ferì più acuta:
ah! Per quella signora sconosciuta
ore insonni, nella notte, lungo il mare!...
Chi sono e dove vanno? Dove vanno
le crëature nomadi? Per quanti
anni, nel tempo, furono gli amanti
presi e delusi dall'eterno inganno?
Ah! Noi saremmo lieti d'un destino
impreveduto che ce le ponesse
a fianco, tristi e pellegrine anch'esse
nel nostro malinconico cammino.
Più d'un inganno lasciò largo
posto
a più d'una ferita ancora viva...
Taluna - intatta - ci attirò furtiva
seco, ma per un utile nascosto;
altre, già quasi vinte, quasi dome,
nella nostra fiducia troppo inerte,
fantasticate quali prede certe,
furono salve, non sappiamo come...
Ed altre... Ma perché tanti ricordi
salgono dall'inutile passato?
Salgono col profumo del passato
da un cofanetto pieno di ricordi?
Ed ecco i segni, ecco le cose mute,
superstiti d'amori nuovi e vecchi,
lettere stinte, nastri, fiori secchi,
delle godute e delle non godute...
Desideri e stanchezze, indizi certi
d'un avvenire dedito all'ambascia
torbida che si schianta e che ci sfascia
rendendoci più tristi e più deserti...
Eppure, un giorno, questa febbre interna
parve svanire: quando ci si accorse,
tardi, di quella che sarebbe forse
per noi la sola vera amante eterna...
Tanto l'amammo per quel solo istante
ch'ella si volse pallida su noi
nell'offerta di un attimo, ma poi,
sparve, ella pure; sparve come tante
altre donne che passano, col viso
seminascosto dal cappello enorme
inasprendo la brama che non dorme
col baleno degli occhi e del sorriso...
Camillo Sbarbaro: "Nella vita come in trincea alzi la testa e fischiano le pallottole."
per una biografia completa vai al sito: http://www.parcoculturaletigullio.it/sbarbaro.htm oppure sulla nostra pagina
Dapprima fu, nell'immaginazione, un facciata rossa in un vicolo evitato. Ai radi uomini che accostavano il muro a viso in su, delle svergognate di sotto le persiane tenevano proposte oscene. [...] La prima volta fu con una che si sventagliava sulla soglia. Mi conduceva il cattivo compagno. Mi restò l'impressione che avesse gli occhi di vetro. Allora esisteva il Peccato. Si camminava distrattamente; poi si scantonava di colpo. Accoglieva all'entrare un archivolto e l'acre odore. [...] Apriva nelle ore di ressa uno sportello donde si ritirava la tessera come nei cinema usa; e una donna alla porta, con un toscano in bocca, contendeva l'ingresso alla stanzetta a pianterreno, dove in una cruda luce di acetilene le ragazze aspettavano. [...] Prendevo sempre la prima, strangolato dal desiderio e dalla vergogna. [...] I miei occhi vedevano carni brucianti dove non erano che povere nudità e scambiavano dei cencetti colorati per gonne fastose. [...] Se mi fossi sbagliato di sesso, io sarei stata una di loro; con questa sete d'un po' di gioia quotidiana mi sarei perduta; per un nastro, per uno specchietto; per meno. [...] Vico Crema tiene nella mia vita il posto che, per altri, il ricordo del primo amore.
Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 12 gennaio 1888 - Savona, Ospedale San Paolo 31 ottobre del 1967)
Solo ciò che non si paga costa
Lo scontento di ciò che hai scritto è il concime di ciò che scriverai.
Nella donna lo commuove il seno: l'Abbondanza, ai suoi occhi di povero.
Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.
Più facile scrivere che cancellare; più che in ciò che riesce a dire, il merito dello scrittore è in ciò che riesce a tacere.
Una lettera d'amore che non fu aperta, la zitella.
Perché l'allacciano al polso, credono, il tempo, d'averlo a guinzaglio.
A proposito di "Cartoline in franchigia": ormai che è ricordo, riconoscenza alla guerra che per due anni mi distolse da me.
Anche oggi un lichene nuovo: il mondo non è finito di fare. [Sbarbaro era botanico di fama internazionale N.d.R.]
Alla spia della persiana, mio padre saltava su a spalancare finestre. L'aveva fatta lui, a vederlo, la bella giornata.
Non chiamarlo ratto, non ti farà più ribrezzo; chiamalo topolino, ti farà tenerezza.
Vanerella, la pianta del cece, sempre così azzimata. I figli le finiscono in minestre per poveri; ma lei chi l'ha mai vista senza i riccioli fatti
Inoffensiva, l'adolescente, a vederla: il ferro da stiro che, freddo alla vista, è rovente.
Felicità, ti ho riconosciuta al fruscio con cui t'allontanavi.
Non fare arte, lasciala farsi.
Nessun grido atroce all'orecchio come il silenzio dell'insetto sotto il dito che lo schiaccia.
Una cosa è quando è detta; è la parola che dà consistenza (e durata) al mondo.
Licenzio le bozze della mia ultima compilazione botanica: trenta anni di ricerche, centoventisette specie, nuove per la scienza. Ho dato anch'io una mano all'inventario del mondo.
Nella aiuole di Rapallo la scritta: RISPETTATE LE ROSE. Un imperativo finalmente accettabile.
Bolle di sapone, Sottovoce, Trucioli, Rimanenze, Scampoli, Fuochi Fatui... e se seguitassi: Spiccioli, Briciole, Quisquillie... mi denigro o più umile è l'atteggiamento, maggiore la superbia ?
Non dar dell'egregio: "uscito dal gregge" suona offesa agli altri, definiti così pecorame.
Leggersi, capacitarsi d'essere esistito.
Se eccesso di godimento è peccato, perdei l'anima per il boccale di birra in cui spensi una sete memorabile.
Ogni barca un nome di donna: i pescatori si affidano al mare su dichiarazioni d'amore.
Amico è con chi puoi stare in silenzio.
La viaggiatrice che s'accaparrava la mia attenzione è diventata innocua quando ho visto quel che leggeva.
Non è il dolore (come vogliono), è la gioia che fa buoni; anche un accenno di gioia. Non punge più quando è in fiore l'ortica.
Poesia, altro vizio solitario.
Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 12 gennaio 1888 - Savona, Ospedale San Paolo 31 ottobre del 1967)