UOMINI E BESTIE
8: Prospezioni dell’immaginario
Le Amazzoni
Prima parte
Amázones si chiamavano secondo gli Antichi da alfa privativum e mazós (ion. per mastós), perché cauterizzavano alle giovani la mammella destra (DIOD. SIC. II 45, 3), ovvero entrambe (ID. III 53, 3), onde potessero tirar d’arco, oppure perché non allattavano (PHILOSTR. her. 750 OLEARIUS), o avevano una dieta esclusivamente carnea (schol. HOM. Il. III 189; máza era una focaccia di farina), o avevano un petto robusto (interpretando l’alfa come intensivum), o ancora perché mietevano indossando cinture maschili (da amáo e zōnē: Temistagora ap. HEROD. pros. cath. III 1, 28 LENTZ), e altre simili sciocchezze.
L’étymologie véritable est évidemment toute différente. D’après Lagercrantz, Xenia Lideniana, 270 sqq., le mot serait tiré d’un nom de tribu iranienne *ha-mazan, proprement ‘guerriers’ [Hemmerdinger piú tardi proporrà *hama-zan: “tutte donne”: “SIFC” 1988], hypothèse en l’air, malgré les combinaisons de Pokorny, 697” (DELG, s. v.).
S’è anche tentato di connettere il nome ad una parola caucasica masa che significa “luna”, quindi “le sacerdotesse della dea Luna”. Infine Bonfante (“SIFC” 1988) ha proposto un’origine illirica o traco-frigia. Ecco la testimonianza erodotea (IV 110-17).
Sull’origine dei Sauromati [una popolazione indo-aria delle steppe fra il Don, l’Ural e l’Ilek che ai Romani sino al IVp sarà nota col nome di Sarmati] è diffuso questo racconto. I Greci, ch’erano andati a combattere contro le Amazzoni (gli Sciti le chiamano Oiòrpata, che in greco significa androkoktónoi, cioè “coloro che uccidono i maschi”, perché oiòr [av. vīra?] vuol dire “maschio” e patà [?] “uccidere”), dopo la vittoria nella battaglia del Termodonte salparono con tre navi portando con sé tutte quelle ch’erano riusciti a catturare, ma esse in mezzo al mare li aggredirono e li uccisero. Dopo aver eliminato gli uomini però, dato che non avevano conoscenza della navigazione né sapevano usare il timone o le vele o i remi, furono trascinate dal capriccio del flutto e del vento e giunsero nella Palude Meotide [il Mar d’Azov] al porto di Cremmi [presso Botevo], che fà parte della Scizia Libera [cfr. HER. IV 20]; qui scese dalle imbarcazioni s’incamminarono verso il villaggio e, non appena trovarono una mandra di cavalli, se ne impadronirono e montate su di essi si diedero a saccheggiare il territorio. Gli Sciti non riuscivano a darsi una spiegazione dell’accaduto perché non conoscevano la lingua né le vesti né la nazione degli aggressori, e si chiedevano stupiti donde venissero. Ovviamente credevano che fossero uomini in giovane età(1) e attaccarono battaglia con loro, ma dopo lo scontro s’impadronirono dei cadaveri e si resero conto ch’erano donne. Si riunirono allora a consiglio e decisero di non ucciderle piú in nessun modo, bensí di mandare presso di esse i piú giovani della tribú, tanti quanti pensavano fossero le Amazzoni, coll’ordine d’accamparsi vicino a loro e di far tutto quello ch’esse facevano: se li avessero inseguiti, non dovevano combatterle ma sottrarsi colla fuga, e quando avessero smesso di farlo, dovevano accostarsi e accamparsi. Cosí decisero dunque gli Sciti, perché intendevano aver figli da esse. I giovani da essi inviati eseguirono gli ordini, e quando le Amazzoni capirono ch’erano venuti senz’alcun’intenzione ostile, li lasciarono in pace, ed anzi ogni giorno avvicinavano il proprio accampamento al loro. I giovani non possedevano nulla, come nulla possedevano le Amazzoni, se non le armi e i cavalli, e vivevano la medesima vita di esse, cacciando e predando. Ora, le Amazzoni avevano l’abitudine di rimanere verso mezzogiorno qua e là da sole, oppure in gruppi di due che poi si separavano, per soddisfare le necessità corporali. Quando gli Sciti se ne accorsero fecero lo stesso, e vi fu chi s’accostò ad una d’esse quand’era sola, e l’Amazzone non lo respinse, anzi gli permise di possederla. Non potendo comunicare con lui a parole, perché non si capivano, la donna gli spiegò a gesti di tornare nello stesso posto il giorno dopo con un compagno, accennando che dovevano essere in due; lei dal canto suo avrebbe portato una compagna(2). Il giovane, allontanatosi, raccontò tutto agli altri; il giorno seguente si recò nello stesso luogo conducendo con sé un collega e trovò ad aspettarli l’Amazzone ed una compagna. Quando gli altri giovani ne furono informati, nello stesso modo riuscirono ad ammansire le Amazzoni che restavano. Uniti perciò gli accampamenti, si misero a convivere e ciascuno si tenne la donna con cui aveva copulato la prima volta. Gli uomini non riuscirono ad imparare la lingua delle donne, le donne invece impararono quella degli uomini. Quando poterono comunicare, gli uomini rivolsero alle Amazzoni questo discorso: “Ognuno di noi ha dei genitori e delle proprietà, perciò smettiamo di condurre questa vita e andiamo a stare col nostro popolo: voi sarete le nostre mogli e altre non ce ne saranno”. Esse risposero: “Non potremmo vivere colle vostre donne perché abbiamo abitudini diverse: noi tiriamo d’arco e di giavellotto, cavalchiamo e non conosciamo le arti muliebri, le vostre donne invece non sanno far nulla di tutto ciò ma si dedicano alle arti muliebri rimanendo ferme sui carri(3) senz’andar a caccia né da nessun’altra parte. Perciò non potremmo mai andare d’accordo con loro. Ma se ci volete come mogli, la cosa piú giusta da fare è che andiate dai vostri genitori a farvi attribuire la parte di proprietà che vi spetta, poi tornerete qui e vivremo insieme per conto nostro”. I giovani consentirono e fecero quanto era stato loro chiesto. Dopo che si furono fatti assegnare la quota di proprietà che gli toccava, tornarono indietro dalle Amazzoni, le quali dissero loro: “Abbiamo molto timore a vivere in questa terra, visto che vi abbiamo indotti a separarvi dai vostri famigliari ed abbiamo recato un gran danno al paese. Perciò, visto che ci volete come mogli, sarebbe meglio che facessimo entrambi cosí: ritiriamoci da questa regione e dopo aver attraversato il Tanai [il Don] andiamo a vivere da un’altra parte”. Anche a questo consentirono i giovani. Varcato dunque il Tanai, camminarono per tre giorni verso oriente oltre il fiume e per altri tre dalla Palude Meotide verso settentrione, sinché non si stabilirono nel luogo dove abitano tuttora. Per tal motivo le donne dei Sauromati hanno mantenuto le antiche abitudini di vita e vanno a caccia a cavallo cogli uomini e senza gli uomini, combattono in guerra e indossano le stesse vesti degli uomini(4). I Sauromati parlano una lingua scitica barbarizzata sin dai tempi antichi, perché le Amazzoni non la impararono correttamente. Queste sono le loro procedure nuziali: nessuna vergine si marita prima d’aver ucciso un nemico, ed alcune di loro finiscono coll’esser vecchie prima di potersi sposare perché non sono state capaci di rispettare la norma.
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(1) Lett. “della medesima età”, però anche se il testo non è un modello di chiarezza, il senso s’intuisce: gli Sciti credevano che le guerriere fossero maschi della medesima (giovine) età che dimostravano d’avere. Non mi pare necessario sospettare una corruttela.
(2) Non vedo alcun motivo di espungere parte del testo.
(3) Noi diremmo “in casa”, ma gli Sciti essendo nomadi, il carro faceva per loro le veci di un’abitazione (HER. IV 46).
(4) Dunque anche le inflessibili Amazzoni sono donne e perciò soggette all’Eros, sembra dirci sogghignando Erodoto, che certo ricuperò questa saga scitica dalle colonie elleniche del Ponto, ov’era stata resa dai locali acconcia ai parametri della cultura greca.
La loro patria stava presso la costa sudorientale del Mar Nero, in Leucosiria, lungo il Termodonte e nella Piana Doiantica, spartita in tre territori, ognuno abitato da una stirpe che prendeva nome da una città o da un fiume: Temiscira, Cadesia e Licastia.
Nel giorno stesso
al largo doppiarono il Promontorio Amazzonio portuoso [Civa Burnu]
dove un tempo Melanippe figlia di Ares che prima correva
prese in agguato l’eroe Ercole, onde Ippolita
per compenso gli affidò la cintura smagliante
in cambio della sorella, da lui resa indenne.
Nel golfo presso le foci del Termodonte [Terme Çayi]
approdarono, perché il mare sorgeva minace alla via.
A questo nessun fiume è pari né tante
fluenti da sé spicca distinte attraverso la terra:
chi sulle dita ognuna contasse, quattro ne mancherebbero
a cento, ma una sola è la fonte verace,
scende a valle dagli alti monti
che dicono delle Amazzoni,
donde si spande per entro le terre elevate
di contro, perciò son serpentine le sue strade,
sempre curva qua e là dove s’imbatta
in un suolo declive, ora presso
ora lontano, molti bracci si perdono senza nome
ma esso palese con pochi ruggendo insieme
sotto il falcato capo nell’Inospite Mare si getta.
E già, ritardando, la mischia dovevano imprendere
colle Amazzoni, né forse indolore era la contesa
esse certo non pregiavano assennatezza né leggi
quante per la Piana doiantica [Samsun] risedevano,
ma l’urto luttuoso e le arti di Ares,
perché d’Ares erano figlie e della ninfa
Armonia, che ad Ares generò le fanciulle guerriere
con lui nei recessi della Selva acmonia [nella zona?] giaciutasi;
se da Zeus di nuovo non fosse giunto il soffio
del Maestrale, essi col vento lasciarono il promontorio rotondo
dove già s’armavano le Amazzoni di Temiscira [Terme],
ché non aggregate in una città ma separate nella regione
secondo tre stirpi esse dimoravano,
lungi codeste cui allora imperava
Ippolita, lungi abitavano quelle del Licastio [il Mert Yrmak?],
lungi le arciere del Cadesio [non identificato].
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(1) Il Terme è in realtà un fiumiciattolo che nasce nella piana di Kuz e giunge direttamente al Mar Nero (l’“Inospite Mare”) presso il Çalo Burnu (il “falcato capo”) senza bracci secondari né diversioni, ma l’alta fantasia di Apollonio lo ha trasformato nell’emblema inquietante dell’altrove in cui abitano le guerriere.
(2) Pare proprio un’invenzione di Apollonio, scaturita dalla prossimità delle sedi tradizionali delle Amazzoni alla rotta della nave, il rischio di un conflitto fra di esse e gli Argonauti, che Giove storna con un vento propizio. Meno chiaro mi risulta invece il doppione dell’isola di Lenno, in cui governano le donne dopo aver ucciso i loro mariti (I 607 sqq.).