TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni

INTOLLERANZA 1948  

Quando era possibile per il lavoro di mio padre, per le ricorrenze si ritornava con gran gioia a Poggibonsi, dai nonni. Si affrontavano viaggi in treno che duravano giorni: le linee ed il materiale ferroviario, con viadotti, stazioni erano state pressoché smantellate dal conflitto e ci si riprendeva con fatica. Ricordo il tremendo cigolare del treno, a 5 kilometri all’ora, sul viadotto di Recco ricostruito in legno, coi bidoni d’acqua e i controllori pronti a spegnere le scintille delle vaporiere. Ricordo le locomotive americane con un solo fanale alto alto, polifemi che i ferrovieri temevano perché,costruite di fretta, avevano caldaie insicure e pronte ad esplodere.

             Anche ad aprile 1948 si partì, quasi di sera, per arrivare…chissà. Mi piaceva guardare dal finestrino (lo faccio anche adesso) per captare lampi di vita del posto che si attraversava e lasciava rapidamente. Meglio di notte, quando il finestrino rifletteva ostinato la mia immagine stinta, fantasmatica e poche luci rossastre davano segno d’una vita ora celata, ma che era bello decifrare, rubare, risentire a modo mio. E poi, c’era la suggestione delle targhe sbreccate di ruggine (allora erano di latta) coi nomi delle stazioni ed il fischio remoto del capostazione per la ripartenza. E meglio se c’era la luna che qualcosa di luce pur dava, magata, sulla vita come lasciata per poco e pronta ad esser ripresa il giorno dopo. Correva col treno, fra la fantasia delle nubi e col puzzo acre di freni e di sudicio di finestrino.

             Da Genova a Pisa, tutto pieno. Forse c’erano ancora i treni “contingentati” e ci sistemammo, con le valigie, nello stretto corridoio.

             Guardavo dentro lo scompartimento illuminato, da cui venivano calore un poco animale e scampoli di conversazione. Le tende marroni a decori erano tirate come quinte.

             Discreti come eravamo e come mi avevano insegnato ad essere, non si guardava all’interno quasi per educazione; soltanto, si sbirciava, anche per passare il tempo. La notte sarebbe stata lunga, fino a Pisa, dove avremmo lasciato questo treno per Roma e cercato uno per Firenze che ci avrebbe portato fino ad Empoli.

             Era passato gran tempo, quando la porta dello scompartimento si aperse ed un signore propose a mio padre di farmi posto. Mio padre si schermì, poi ringraziando accettò. Entrai come in un uovo, reso intimo dal lungo star insieme delle persone e mi diedi (le luci erano accese) a guardare lo stesso dal finestrino anche se l’abbaglio non faceva vedere nulla; solo immaginare fascinosamente e sognare un paesaggio conosciuto da altri viaggi.

             Parevano cinque suore, con un abito blu chiaro ed il signore aveva un’aria troppo sicura, disinvolta ed autoritaria. Mi chiese dove si andava e mi spiegò che con lui erano cinque suore francesi (che intanto cantavano, a bassa e melodiosa voce, certi loro inni, roteando la testa e gli occhi a ritmo) che andavano a Roma per occuparsi di attività…politica, in vista delle elezioni.

            Diceva questo, appagato. Poi guardò meglio al mio bavero, dove era uno stemma di Garibaldi nella stella a cinque punte, l’emblema del Fronte Democratico Popolare.

           La sua voce si fece aggressiva:”Cos’è quella roba?” ed io risposi con la prima bugia di quella notte (avevo dieci anni!) “Non so; l’ho trovato” Invece lo sapevo benissimo e lo portavo da orgoglioso:ma lì…

            “Noi andiamo a Roma proprio per combattere codesto distintivo e cosa rappresenta. Vattene via subito: non puoi stare con noi”

            Mi alzai come inebetito dalla violenza di quel dire. Le suore francesi non capirono, non sapevano l’italiano e continuarono a cantare sottovoce facendomi appena posto per uscire.

            E adesso, la seconda bugia! “Perché sei uscito?” “Perché avevo caldo, papà” “Ma ho visto che quel signore ti parlava con un certo tono. Cosa ti ha detto?” “Ma niente; che accompagna quelle suore a Roma”

            Dopo un poco, papà se ne stette e cessò la mia paura che entrasse nello scompartimento a chieder conto. Io guardavo il distintivo che brillava fioco nella luce azzurrata del corridoio. Lo avevo tradito. Ma avevo conosciuto l’intolleranza e forse me ne venne da allora una gran voglia di combatterla.

            Il distintivo non saprei più dove sia: credo che non esista più. Esiste, però, il mio stupito dolore ogni volta che l’arroganza cattiva sotto abiti civili si ripresenta, mostruosa.

             Arrivammo a Pisa,nella stazione distrutta e precaria, che albeggiava.                                                                  

Sergio Giuliani