Tratto da
Macchiette e osterie della vecchia Savona

di Giuseppe Cava (Beppin da Cà)
SABATELLI EDITORI Savona - Genova

La Copertina e le illustrazioni sono opera del pittore Luigi Caldanzano

Leggi l'introduzione di Silvio Riolfo

 

 

 

 

L'OSTERIA DEL « FIGOBUZZO »

Sopra l'insegna si leggeva: « Osteria delle Feluche », e l'ignoto pittore, oltre le lettere della dicitura, v'aveva spennellato due tratti di mare e di cielo azzurrino, su cui spiccavano diverse feluche, con le candide vele gonfie di vento e i tagliamare spumeggianti. L'idea di illustrare, in tal modo la denominazione dell'osteria era stata geniale; anche gli illetterati potevano individuarla fra le altre osterie senza sbagliarsi. Il mare, il cielo e le dipinte feluche, saran forse state alquanto calunniate, come eran calunniati i « Leon d'oro » e i « Cavallini bianchi » d'altre insegne, ma la gente capiva e le bastava. Si era in tempi d'ignoranza, in cui il barbiere pendeva a fianco della porta il bacile d'ottone; l'ombrellaio un bell' ombrello di latta aperto e vistosamente verniciato; il cappellaio un cilindro di legno dorato; il farmacista il bastone con la vipera intrecciata, o una tenia d'un paio di metri sotto spirito. Oggi, quegli aggeggi infissi o penduli, destinati ad attirare l'attenzione dei compratori, farebbero ridere. La gente s'è evoluta al punto che distingue l'ora dalla sola posizione delle lancette, legge correntemente certe scritte, sulle quali un crittografo avrebbe sudato sette camicie e interpreta sculture e dipinti con l'innegabile sviluppo del senso divinatorio del pensiero dell'autore, anche quando una rondine sembra un « boomerang », un piroscafo una scatola di sardine aperta sul punto d'essere sommersa dalla scopa dello spazzaturaio.

Comunque, come ho scritto, l'idea di dipinger le feluche sull'insegna era stata geniale e di bell'effetto. Ma la fama del proprietario le aveva data una nomea che sorpassava tutti i lenocinii pittorici, rendendola famigliare quanto la punta della « Marinetta » o l'« Archivolto della Campanassa ». Anche i bambini, che s'erano da poco emancipati dalle dande, sapevano che l'« Osteria del Figobuzzo » era situata sulla calata non ancora Pietro Sbarbaro, nel « Cu de bèu », vicino al palazzo della Dogana, dove un tempo eran pure le prigioni dei malapaga. E se ciò sapevano i piccoli, era ben noto ai grandi che vi si cucinavano « trippe alla genovese » d'una tal squisitezza da far venir l'acquolina in bocca alle maestose « polene » decoranti i bompressi dei bastimenti ormeggiati lì vicino, e certe « trenette col pesto » la cui fragranza giungeva sull'ali del vento sino alle coste d'Africa a ingolosir sultani e odalische. Delle « zuppe alla sbirra » che vi servivan deliziosamente fumanti, non vi parlo, e nemmeno vi accenno ai sostanziosi « minestroni », sui quali stava ritto il cucchiaio come una vanga calcata nel buon terreno. Se li ricordan troppo bene chi ve li ha gustati, come si ricordan le famose « buridde » e le « stoccafisciate alla marinara » con le noci e i pinoli grattuggiati di cui s'è smarrita la ricetta.

Piatti nostrani autentici che si potevano inaffiare con abbondanti amoe di vin dei contorni che v'aggiungeva delizie di vellicanti ambrosie e allegrezze di sole, e che tutti insieme riuniti formavano il migliore pranzo completo senza bisogno d'esotiche bevande. Tutt'al più si poteva far bissare l'àmoa eppoi intonare una vecchia allegra canzone di quelle che cantano i marinai e che il vento sperde sul mare quando soffia di poppa fresco e costante e fa garrire il sartiame.

All'autenticità della cucina ligure, corrispondeva il ligure tipo del proprietario, rozzo e brusco e « stondaio » al mille per cento. Perennemente in maniche di camicia, piccolotto, tarchiato, abbronzato, velloso sin sulle estreme falangi delle dita, capelli e baffi arruffati, spinosi, quasi sempre accigliato; un buon orso perfettamente addomesticato, servizievole e scrupolosamente galantuomo.

Contrariamente alla azzurrina serena festosità del cielo e del mare spennellati nell'insegna non credo il suo viso siasi mai schiarito. Forse nemmeno il giorno delle nozze con la sua compagna che ne sopportò tranquillamente il bisbetico umore per tutta la vita. Il popolino, che è psicologo perfetto, l'aveva battezzato « Figobuzzo » e « Figobuzzo » rimase, anche dopo ch'egli scomparve, quale sinonimo di lunatico e protervo pur senz'essere malvagio.

Gli aneddoti che di lui si raccontano son numerosi. Un giorno una compagnia di quattro marinai andò a pranzare nella sua osteria. Mangiarono copiosamente e a un certo momento ordinarono del formaggio. « Figobuzzo » si ribellò.

— No, non vi servo più nulla! — disse loro in modo reciso. — Avete mangiato tanta pastasciutta da riempire un bove, quattro bistecche larghe come un piatto, quattro porzioni di trippe «sguazzose », tre chili di pane, bevuto cinque àmoe di vino e mi pare che basti. Se volete crepare di indigestione andate da un altro. Io non voglio avervi sulla coscienza!

E non ci fu verso di smuoverlo.

Un'altra volta due zavorranti entrarono ordinando due « zuppe alla sbirra » e si fermarono in piedi in mezzo al locale, infervorati a continuare il loro discorso, senza prender posto. L'oste preparò le zuppe in cucina e rientrò recandone una per ciascuna mano. Visto ch'erano sempre ritti in mezzo alla sala, si fermò e rimase qualche momento in forse. Poi, non sapendo a qual tavolo posarle, gliele posò vicine sul pavimento.

— « Ma, cose fae? » — chiesero gli zavorranti sorpresi.

— « V'ho portou e sbire, » — rispose calmo. — « Quando ve deciddiei a settave a 'na toa, me o saviei di » — E se n'andò in cucina.

Potrei citarne altri, ma credo che questi due bastino a illuminare la figura del vecchio « Figobuzzo ». Rustico, caparbio e fondamentalmente onesto e anche buono alla sua maniera. Un povero vi trovava sempre una minestra gratis.

Degli osti di tal fatta s'è smarrito lo stampo. Scoppi o no d'indigestione l'avventore, poco loro importa; si ritengon lieti di potergli rifilare tutti gli avanzi stantii di cucina senza che la penna oscilli loro in mano nel fare il conto. In una cosa soltanto, anzi in due, abbondano; in sorrisi e professionali cortesie. Ciò che « O Figobuzzo » non sapeva fare, ma non sapeva nemmeno fare i conti con la penna:

— « Quattro de trippe, due de pan, due de vin, èutto palanche!... E bon giorno! »

 

La Copertina e le illustrazioni sono opera del pittore Luigi Caldanzanoo

Tratto da  Macchiette e osterie della vecchia Savona
di Giuseppe Cava (Beppin da Cà)
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