Appartenenza all’orto

Appartenenza all’orto
Troviamo quello che ci fa andare d’accordo, non cerchiamo mai quello che ci fa litigare

Appartenenza all’orto

 L’anziano avvocato da cui ho avuto in comodato un pezzo di terra per l’orto è un carcarese di antico lignaggio. Incarna dunque ad un tempo la nobile schiatta della sua antica famiglia, e nondimeno rappresenta, anche per via del cognome, la provenienza basso piemontese, o altovalbormidese. Epperò vive a Genova, da tempo oramai.

Il tacito patto per cui ho avuto in uso questo pezzo di terra comprende il fatto che nella stagione, io avrei procurato al proprietario tutti i pomodori dell’orto possibili, da mangiare affettati e conditi, in insalata, belli maturi, rossi e dolci. Ed in effetti nel mio appezzamento le tomatiche vengono su bene e belle, dolci e succose, tanto da appagare avvocati, panettieri e operai.


L’anno scorso, il valbormidese genovese, mi telefona, gentile come sempre, perché lunedì verrebbe su, in paese, per altre faccende. Passerebbe a prendersi un poco di pomodori, i primi.

Essendo appena cominciato giugno, gli dico, se vuole dei pomodori di Carcare le devo dare pianta, canna, legacci, bastardi e un bottiglino di verderame, dacchè la tomatina in questione è alta (di questa stagione) poco più di una spanna, e manco i fiori ha estroflesso.

       Ma come? – dice l’avvocato – nei negozi i pomodori ci sono già! 

       Ma nei negozi i pomodori ci sono ormai tutto l’anno. Se vuol venire a vedere nell’orto quel che c’è: forse un poco di insalata, due piselli (i primi), due rapanelli, forse un paio di fave. Bon.

L’avvocato era deluso, ma visto che rimedio non c’era e la questione non era causata da incuria o dolo, ma dal naturale progredire della stagione, ristette, rinunciando triste al pomodoro del suo orto.

  

Una ventina di giorni dopo la mia vicina d’orto, una signora rumena gentilissima e laboriosissima, mi offriva alcuni piantini di peperone. Per lei erano troppi: avanzavano. Ho ringraziato e ricambiato con della rafia da legatura, comprata a mia volta in abbondanza. 

Pochi giorni prima mi ero ritrovato in fondo all’orto un filare di zucchine e uno di pomodori, piantati in bell’ordine, imperticati, dove serviva. L’altro vicino d’orto, un tunisino mio coetaneo, aveva piantini anche lui in eccesso, non vedendomi ed avendo tempo me li aveva messi a dimora. Che dire? Grazie, oltre a provvedere omaggiando il tunisino di altri piantini a mia volta. Lui e la sua signora ucraina, sono sempre molto gentili con me. Mi stupisce sempre sentirli parlare tra loro, in italiano. E come sia possibile che due persone così lontane abbiano trovato un fazzoletto di terra dove parlarsi. D’altra parte vanno d’accordo anche con la signora rumena.

L’amico tunisino è un vero contadino: conosce le bestie e le piante, sa coltivare, sa riparare oggetti, sa faticare fino allo sfinimento ma ci tiene a salutare sempre, quando arriva e quando parte. Se ha qualcosa più di quel che gli serve, lo condivide. Se non ha, chiede. Se c’è da chiacchierare un po’, smette volentieri di faticare. Se c’è da dare una mano lo fa volentieri. La sua compagna è mite e gentile. Parla volentieri della sua terra lontana, dei figli che ancora ha in Ucraina, grandi e sposati e con altri figli ancora. Con sé, da uno degli ultimi viaggi all’Est, ha portato rafano e aneto, e l’ha piantati nell’orto del suo compagno tunisino, al quale piacciono tantissimo. Dell’aneto, specialmente, dice che è “maraviglioso” nell’insalata.

 

A dirla tutta a me l’aneto non piace proprio per niente. Ma è bello e curioso che i semi e le piante si spostino nelle tasche di chi viaggia, come è sempre stato. Anche in America sono arrivate piante nostrane (ne parlavo poco fa con un amico genovese, di certi suoi fagioli, finiti in USA), come anche alla foce del Bisagno, negli anni Cinquanta e Sessanta, fiorissero orti anarchici di semi portati dai “terroni” che venivano a lavorare a Genova, ma non disprezzavano, sulle sponde del Bisagno, coltivarsi ancora un poco dei loro pomodori o peperoncini.

L’amico tunisino, dicevo, è proprio un contadino. Il lavoro incessante, duro, esposto agli elementi, un certo fatalismo legato all’imprevedibilità meteorologica lo hanno portato anche ad essere un duro, uno deciso e chiaro nelle scelte di campo, un calcolatore. La vita gli ha insegnato ad essere un materialista, uno pratico, senza troppe filosoficherie. Non segue nessuna religione. Lui è per sé e per il suo indecifrabile clan di amicizie. Diresti dunque che non ha nulla a che fare con il sacro, con il poetico, con l’intimo. Eppure, or non è molto, si è fermato stupefatto a guardare il mio filare di fave, nell’orto. Ha pronunciato una frase vagamente scomposta (parla bene italiano, ma quando il concetto è complesso inciampa) in cui compariva splendidamente la parola “grazia” riferita al fatto che da un solo seme possa venire fuori una pianta tanto alta e bella, e da ogni pianta generarsi sei, sette bacelli gonfi di opime fave. Da un seme, una ventina di nuovi semi, ma mangiare o seminare. 

 

 

Bella riflessione. Ma bello soprattutto sentir parlare di “grazia” da una persona così. Ne sono rimasto toccato, profondamente. E per la conoscenza insospettata della lingua, e per la riflessione niente affatto banale e niente affatto materialistica. Ma a ben pensare solo i contadini possono conoscere da vicino la creazione (o Creazione, per chi è credente) e praticarla. E solo i veri contadini sanno parlare di certe cose senza alcun bisogno di filosofare, razionalizzare, riferirsi alle antiche e sacre scritture.

Ma pensa te, poi mi dicevo, per convenzione chiamiamo “carcarese” un avvocato  che non sa neppure quando maturano i pomodori, e allo stesso tempo chiamiamo “stranieri” uomini e donne che la terra carcarese non solo calcano, ma lavorano e ingravidano.

Se nell’appezzamento dai diversi orti è stato possibile convivere lietamente fin ora, è dovuto al fatto che ci sono delle regole non scritte, non rigide, ma dettate dall’esperienza e dal buon senso. Le regole dunque sono indispensabili per convivere. Senza regole non c’è anarchia, ma caos, far west. Ma ancor più le norme inderogabili, così come i limiti invalicabili, il filo spinato, i muri e le guardie armate, non funzionano. In un microcosmo come questo, le regole dateci autonomamente, sono bastate. Bastano, perché c’è buon senso. Troviamo quello che ci fa andare d’accordo, non cerchiamo mai quello che ci fa litigare.

     ALESSANDRO MARENCO

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