Antonio Agostani

Note sulla mostra di Antonio Agostani al Priamar
AGOSTANI TRA IL TORMENTO DELLA VITA
  E LA LUCE DELL’ARTE

AGOSTANI TRA IL TORMENTO DELLA VITA E LA LUCE DELL’ARTE

Si è chiusa domenica scorsa, 5 febbraio 2012, alla Fortezza del Priamar, nel  Palazzo  del Commissario, la bella e importante mostra dedicata al grande pittore savonese Antonio Agostani (1897 – 1977), curata da  Lorenzo Zunino.

 In una sala  del Palazzo erano esposte anche  alcune opere degli altri artisti del gruppo “La Goletta”, tra le quali spiccavano due quadri ad olio di Mario Gambetta: Barche, una preziosa sinfonia tonale in cui la spiaggia con i gozzi dipinti a tocchi leggeri di bianco, di rosso e di blu  si  distingue dal mare e il mare si distingue a malapena dal cielo solo per una diversa gradazione cromatica di una luce rosata, venata di sfumature tra l’azzurro e il violetto; e Cortigiane sull’altana (1946), con due splendidi nudi femminili vagamente cezanniani, en plein  air, appoggiati al parapetto di un’altana veneziana che dà sul Canal Grande, con vista sulla Salute e su San Giorgio Maggiore.  L’origine del sodalizio artistico è così rievocata dal critico d’arte e scrittore Dante Tiglio: “Il gruppo della Goletta… nacque nel cuore di una luminosa giornata dell’estate del 1946 in una spiaggetta isolata, accessibile soltanto dal mare, siccome circondata da speroni rocciosi che discendevano a picco dal promontorio che fronteggia l’isola di Bergeggi. In quel delizioso angolo della natura erano approdati Lino Berzoini, Raffaele Collina, Renata Cuneo, Mario Gambetta, Gibba De Salvo, l’ing. Coda, animatore e organizzatore del picnic, e il sottoscritto, dopo essere partiti da Vado con due grosse barche e due pescatori, che, al largo della costa, all’altezza dell’isola, avevano tirato su dal fondo alcuni tramagli pieni di pesci meravigliosi e guizzanti. Lo splendore del mare e del cielo, la bellezza della stagione, l’allegria degli animi, eccitavano la mente, che ancora risentiva dei disastri materiali e spirituali provocati dalla barbarie del prolungato conflitto, a formulare nuovi progetti per la rinascita della cultura e dell’arte, sicché dopo le nuotate, la cottura del pesce sull’improvvisato focolare di pietre e la gustosa colazione, qualcuno affacciò la proposta di formare un gruppo artistico savonese, che avrebbe dovuto comprendere gli artisti presenti, nonché i pittori Antonio Agostani e Ivos Pacetti.  

Uomo con bombetta

Un’idea suggestiva, accolta all’unanimità. Toccò poi al sottoscritto indicare la denominazione del gruppo, che mi venne suggerita dall’ambiente, dal percorso in barca e dal legame di tutti gli artisti menzionati con la tradizione e il territorio ligure. Ispirato da queste realtà, suggerii il nome Goletta, che piacque a tutti i presenti”. Altri tempi!

 

Da questo nitido racconto traspare quel clima di ritrovata speranza in una migliore e più felice navigazione anche per gli artisti sopravvissuti agli orrori della guerra, e che volevano impegnarsi in “nuovi progetti per la rinascita della cultura e dell’arte” in quella straordinaria e rigogliosa stagione culturale dell’immediato dopoguerra caratterizzata dall’arte “impegnata”, dal neorealismo nel cinema, in letteratura e nell’arte (si pensi a Guttuso e al Fronte Nuovo delle Arti, patrocinato da critici come Giuseppe Marchiori, G. C. Argan, Mario De Micheli), da una presa di distanza dal classicismo di Novecento e dall’apertura alle avanguardie europee, in particolare  al Picasso postcubista.  Ma i pittori e la scultrice della Goletta, più che al Picasso di Guernica guardavano ad Arturo Martini e al realismo di ascendenza divisionista del maestro Eso Peluzzi, alla cui scuola, infatti, Agostani si è formato raggiungendo una piena maturità espressiva, prima di spiccare il volo verso quelle sue tragiche meditazioni cum figuris sulla morte e quelle sue rappresentazioni scabre ed essenziali di esistenze perdute, segnate dalla fatica di vivere, dall’emarginazione, dal degrado e dalla consunzione da alcool o da miseria. Non per niente il sottotitolo opportunamente scelto per questa mostra antologica è “Il pittore del tormento”, e  davvero tormentata  fu la vita di “questo popolano autodidatta, di questo partigiano ritornato ferito dalla montagna più povero di prima e più solitario: inidoneo alla protesta  ed alla rampogna” (Emilio Zanzi, su “La Goletta” del settembre 1947). Inidoneo?

Che strano aggettivo ha usato l’autore di questo articolo – datato, ma illuminante riguardo a certi (pre)giudizi estetici – per descrivere un tratto del carattere, evidentemente mite e per niente aggressivo, di un artista  sensibilissimo alle sofferenze altrui, e al montaliano “male di vivere”; avesse detto: “inidoneo all’indifferenza” o anche “ad accettare l’ingiustizia legalizzata delle classi dominanti”, si potrebbe capire; ma “inidoneo alla protesta ed alla rampogna”, che cosa vorrà mai dire?

 Tanto più che Agostani non manca certo di denunciare, come In prigione o ne Il lavoro uccide, o nella Preghiera, o in Campo di concentramento, o in quella straziante, cupa e luminosa a un tempo – espressione di un’umanità ferita nel profondo nella figura di un Cristo morto e scarnificato come un ebreo vittima dello sterminio –  Crocifissione, il dolore della vita offesa. D’altra parte, un pittore che lingua dovrebbe usare per dire quello che intende dire, se non la lingua della pittura? Anzi, se traducesse le sue immagini in parole, tradirebbe la ragione prima della sua identità e vocazione artistica: non sarebbe più un pittore ma un’altra cosa; mentre Agostani voleva essere pittore e nient’altro che pittore, perché era proprio e solo con la pittura che poteva e voleva dare un senso al suo esistere e al suo tormento. E la sua pittura infatti diviene sempre più interiore , essenziale, spoglia, le sue figure divengono cifre e simboli di una situazione angosciosa, in cui la stessa religione sembra più terrorizzare che consolare (La donna con il crocifisso, I confratelli, Il sacerdote, Il chierichetto hanno le sembianze spettrali di presenze più demoniache che angeliche, o di angeli divenuti demòni). Il tema del teschio, che ritorna ossessivamente – presente anche in certi attoniti ritratti che fanno pensare all’Urlo di Munch, come il Ritratto di prostituta, La sposaAlla finestra – e della danza macabra rivelano quanto profondo fosse in Agostani il sentimento tragico della vita, tragicità che l’artista  ha rappresentato anche con ironia (Lo scheletro con il violoncello). Infine, nel Fiume d’inverno (del 1976, un anno prima della morte), il paesaggio invernale è reso con tale rapidità di tocco e così trasfigurato in visione interiore da ricordare la purezza pittorica dell’ultimo De Pisis. Alquanto curiosa mi è sembrata, pertanto, la definizione del sopra citato Emilio Zanzi: “Agostani è un disegnatore che dipinge piuttosto che un pittore che disegna”.  Anche qui, di nuovo, che cosa significa? Si potrebbe anche dire, guardando i suoi numerosi schizzi – notevoli quelli del carcere e dell’ospedale  –  che Agostani è un pittore che disegna piuttosto che un disegnatore che dipinge” e il risultato non cambierebbe. Già, ma gli schizzi non sono quadri, bensì, appunto, schizzi preparatori di quadri futuri, o annotazioni di un diario figurato, come usava fare, per esempio,  il Pontormo. Possiamo forse dire anche per il Pontormo che era un disegnatore che dipinge? Inoltre Zanzi, per sottolineare la prevalenza del disegno sulla pittura in Agostani, aggiunge che “Forse senza saperlo ragiona come Domenico Ingres…”; sarà, ma se c’è una pittura lontana dal classicismo di Jean-Auguste-Dominique Ingres, è quella espressionistica e “antigraziosa” di Agostani, il cui temperamento era certamente più vicino  a quello di Munch che a quello del “perfezionista” Ingres. Antonio Agostani è stato, comunque,  un esempio di artista puro, che ha tenuto fede alla sua vocazione fino in fondo, anche a costo dell’isolamento e dell’incomprensione, il prezzo che talvolta è necessario pagare per non tradire se stessi.

FULVIO SGUERSO

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