Anche i porti sono “repubbliche” fondate sul lavoro.

Anche i porti sono “repubbliche”
fondate sul lavoro.

Anche i porti sono “repubbliche”
fondate sul lavoro. 

Approfondisco il tema lanciato nell’intervento della settimana passata.

Il tema lavoro è anche uno dei temi più delicati in questa fase di discussione su una possibile riforma della L. 84.

Su questo fronte la realtà della portualità italiana incontra una fase nella quale emerge con chiarezza quanto sia stata difforme la applicazione delle stesse norme da porto a porto (e in parte le norme lo consentono), così come sia complesso il processo, anche culturale, di acquisizione del ruolo di fornitore di lavoro temporaneo da parte delle Compagnie portuali.

 

Anche in questo caso credo sia corretto seguire un percorso “storico” nel ragionamento, per favorirne la chiara comprensione.

Iniziamo con il dire che sul tema lavoro i porti esaltano la propria peculiarità e originalità. Infatti, ben prima del DL 196/96 che ha introdotto la possibilità di fornire mano d’opera, istituendo il lavoro interinale, nei porti la fornitura di braccia, di lavoro, era cosa lecita e abituale.

La stessa L. 84/94, che istituì, con l’art 17, la categoria del fornitore di lavoro temporaneo portuale, fu emanata due anni prima del “Pacchetto Treu”.

Dall’inizio degli anni 90 il pubblico, rappresentato dagli Enti porto o dai Consorzi, uscì dal palcoscenico della conduzione delle operazioni portuali. Le Autorità portuali assunsero le attuali funzioni regolatrici e di controllo e lasciarono il campo delle lavorazioni portuali ai terminalisti, con i proprio organici, integrati, sui picchi di lavoro tipici dell’ attività portuale, dai lavoratori delle compagnie.

Per gestire la transizione di queste ultime verso il modello disegnato dalla L 84 in materia di organizzazione del lavoro, incarnato nelle due tipologie art 16, per la funzione di appalto e art 17 per la dimensione di fornitura di mano d’opera, fu istituita una norma transitoria, l’art 21, che consentiva un lasso di tempo alle compagnie medesime per scegliere quale identità adottare, se il fornitore di servizi appaltati dalle imprese o il fornitore di mano d’opera temporanea.

Poi, quella fase che il legislatore prevedeva di pochi anni, in alcuni casi si è protratta per 15 anni, come a Genova, dove la assegnazione dell’art 17 alla Culmv è del 2009.  Ma questa è l’Italia, bellezza.


Alla fine ci siamo trovati di fronte a tre realtà distinte:

  • I porti dove le Compagnie hanno optato per la fornitura di lavoro, che sono la assoluta maggioranza;
  • Il porto di Livorno, dove la Compagnia ha scelto la strada dell’impresa, non volendo rinunciare alla partecipazione alle imprese terminalistiche e alla conduzione di concessioni, attività che sono incompatibili con l’esercizio dell’attività di art 17, che ha invece l’esclusiva nella fornitura di lavoro.
  • I porti più giovani, dove non ci sono le compagnie, che, o hanno istituita una agenzia per la fornitura del lavoro autorizzata con l’art 17, o non hanno assegnato l’art 17.

Inoltre vi sono scali marittimi ove, sia in presenza di art. 17, sia in assenza del medesimo, i terminalisti appaltano porzioni di ciclo ad imprese autorizzate ai sensi dell’art. 16.

Questo è il quadro che si è composto negli anni. Anni che sono trascorsi determinando una situazione che si è a sua volta consolidata.

Infatti, dal 1994 ad oggi, le imprese terminalistiche hanno consolidato la propria presenza e hanno sempre più definito e accresciuto la composizione dei propri organici diretti.

A parte il porto di Bari, dove la scelta della AP si è orientata verso la conservazione in mano pubblica dell’intero demanio portuale, incluso le banchine, che sono così tutte “pubbliche”, e sono state rilasciate quindi solo autorizzazioni all’attività di impresa ex art 16, negli altri porti principali italiani si è proceduto con il rilascio delle concessioni, ex art 18 L84, in capo a imprese private che, sulla base delle stesse concessioni, hanno prodotto investimenti cospicui e generato occupazione.


Inoltre, nel corso degli anni, il progressivo aumento della quota di merci containerizzate, ha generato processi di trasformazione del lavoro portuale che si è sempre più avvicinato al modello del lavoro industriale, con la caratteristica di organizzazione pianificata che è propria a questa tipologia di attività, e che è una “bestemmia” per chi è legato alla tradizione del lavoro portuale tradizionale.

Batini, l’uomo che più di ogni altro ha rappresentato il “portuale”, infatti odiava i contenitori e considerava i terminalisti degli abusivi. Quante volte glielo ho sentito dire, con il suo sorriso  e il suo sguardo magnetico e intelligente, durante incontri e negoziazioni, per marcare una distanza tra il suo mondo e il nostro.

La situazione, comunque, si è determinata così, consolidandosi.

Sino a che c’è stata crescita si potevano avvertire degli scricchiolii, ma la situazione ha retto. La crisi ha esaltato le criticità e, ora, siamo di fronte ad un bivio.

Da qui in avanti, lo premetto al lettore, sarò assolutamente parziale, esprimendo opinioni soggettive, anche se basate su dati oggettivi .

Il bivio è, brutalmente, questo, a mio parere:

  • per salvare la tradizionale funzione e identità storica delle compagnie, è giusto condizionare e, sostanzialmente, determinare un blocco del processo di sviluppo dell’imprenditoria portuale privata?

O, formulando la domanda in altro modo:

  • dove sta la centralità del lavoro portuale e dove si trovano le possibilità di una sua evoluzione e le risorse per finanziare i processi di sviluppo organizzativo e, quindi, formativo?
  • È possibile distinguere la funzione formativa del personale da quella di chi per legge (le concessioni) deve fare gli investimenti?


Paride Batini

Di tutto questo si sta parlando oggi.

Infatti c’è una corrente di pensiero che, di fronte alla situazione di crisi in cui versano molte delle compagnie portuali, pensa di individuare funzioni generali (la formazione in primis) che ne consentano una contribuzione economica aggiuntiva a quella che viene generata naturalmente dalla funzione di fornitrici di mano d’opera. In materia si è registrato in settimana un intervento di due esponenti di spicco delle AP Italiane, Il presidente e il Segretario della AP di Bari.

Ora è senz’altro vero che i soggetti art 17, quindi le compagnie innanzitutto, hanno subito ancora più dei dipendenti dei terminal gli effetti della crisi,  essendo legati indissolubilmente alla variazione della quantità di lavoro.

Ma è altrettanto vero che gli art 17 e solo loro possono usufruire della cassa integrazione speciale, data dalla Indennità di mancato avviamento (IMA), che si attiva automaticamente a favore del lavoratore a fronte della mancata prestazione. Questo istituto, che è vissuto come precario per molti anni, è diventato strutturale anche grazie alle battaglie che i soggetti  del tavolo del CCNL porti (OOSS e Associazioni Datoriali) hanno, uniti, compiuto.

Ora, in un paese dove si ha ancora voglia di vedere il futuro e di cercare di immaginarlo e di prepararlo, si sarebbe approfittato di questa possibilità per iniziare processi di riorganizzazione.

Ma qui è emersa, in tutta la sua drammaticità, la scarsa capacità di autoriforma che il nostro sistema paese ha, anche quando la direzione che si sta percorrendo è assai chiara.

Infatti si è preferito traccheggiare, mettere delle pezze, piuttosto che prendere il toro per le corna per affermare, sempre a mio parere, ben inteso, a quello che mi sembra essere lo spirito della L 84.

In una visione ideale ed astratta delle norme citate della 84 (artt 16/17/18) penso che si sarebbe dovuto procedere in questo modo:

  • centrale è il lavoro delle imprese, che infatti è regolato come non precario, con orario fisso (36 o 38H settimanali),  la cui flessibilità di orario è racchiusa e delimitata in norme ben definite nel CCNL che si applica, senza deroghe, solo a loro;
  • gli art 17 sono la palestra nella quale si formano i lavoratori che potrebbero garantire il turn over per le imprese; il CCNL negli art 17, non a caso, è applicato con le deroghe concordate sulla flessibilità dell’orario necessarie per consentire la fornitura di risorse in integrazione temporanea di organico alle imprese; i lavoratori sono tutelati dalla presenza strutturale dell’Indennità di mancato avviamento;
  • le imprese devono destinare risorse per la formazione del personale proprio e dell’art 17 sia sulle materie obbligatorie (sicurezza, security), sia su quelle più specifiche connesse ai propri cicli lavorativi.

Tutto ciò, invece, si è scontrato con la volontà, mai dichiarata ma sempre praticata, di conservare l’esistente, pur in presenza di una filosofia della legge così innovativa.

Il sindacato si è sdraiato sulla difesa delle compagnie così come sono e come erano prima della riforma, contenendone il console nella propria delegazione in Comitato portuale.

Le imprese, pro bono pacis, hanno sostanzialmente accettato questa situazione e non hanno esercitato quella azione incalzante che sarebbe stata necessaria, a volte per contingenti interessi e calcoli miopi.

Questa è una  storia, dal mio punto di osservazione, che riguarda i porti di Savona e Genova.

Con una grande differenza: a Genova comunque si è realizzato un processo di consolidamento dell’impresa privata, che oggi  raccoglie quasi 2000 addetti, in aziende quasi tutte sopra la fatidica soglia 15. A Savona, invece, sono poco più di 200 gli addetti diretti delle aziende terminalistiche e solo due di esse superano i 15 dipendenti.

Ora si sentono voci circa una prossima iniziativa, a inizio dicembre, che vorrebbe progettare una trasformazione dei soggetti compagnia, coordinando la Culmv Genovese, con la Culp Savonese, infine la Pietro Chiesa di Genova (che peraltro è un art 16).

Una iniziativa di cui si sa poco ma che, temo, punterà a confutare e indebolire quella parte della L84 che prima descrivevo e che ne rappresenta la visione riformatrice.


Nella discussione sul futuro dei porti liguri, di Savona e Genova in primis, questa ipotesi rischia di precipitare come un macigno.

La butto li: se parte un processo di aggregazione tra le compagnie su basi simili si favoriscono i fautori dell’accorpamento anche amministrativo tra Genova e Savona, oltre agli altri danni che si produrrebbero. Forse anche da questo si spiega l’iniziale posizione della Filt Cgil di Savona.

Ancora una volta,  di fronte a tutto questo, sapere di più significa agire meglio.

Ne parliamo in città?

Luca Becce 

 

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