Alzati che sta passando la musica popolare!

Alzati che sta passando
la musica popolare!

Alzati che sta passando la musica popolare!

 Sapendo della curiosità per i reperti antichi della mia terra, un amico mi ha regalato il: “Regolamento della Società Cattolica di Mutuo Soccorso tra Agricoltori e Operai di Giusvalla”, stampato a Savona, dalla Tipografia Ligure nel 1890. Non è stato compilato in nessuna delle sue parti ed è completo in tutte le sue 36 pagine di formato 15 x 10,5 cm.


Non è una rarità, sia inteso. Verso la fine del secolo sorsero un po’ dappertutto queste associazioni, tanto religiose che laiche, con lo scopo di aiutare il popolo.

Versando una piccola quota associativa il socio avrebbe potuto ricorrere al credito, ad un sostegno, alla solidarietà derivante dal gruppo. Allo stesso modo la Società operaia o cattolica, laica o religiosa che fosse, cercava di educare la gente, vincolando la partecipazione all’associazione proprio in funzione del comportamento sociale. Se bevi, non sei bene accetto; se giochi a carte o alla morra, non sei bene accetto; se scommetti, non sei bene accetto; se frequenti postriboli, non sei bene accetto… E così via. In effetti sarebbe inutile prestare denaro a chi fosse dedito ai noti vizi.

Misteriosamente questo piccolo patrimonio morale (moralista) è stato integralmente gettato via, e forse valeva la pena ridimensionarlo, studiarlo, ma non gettarlo.

Tra i punti del regolamento uno in particolare mi ha colpito: ai nuovi iscritti alla società si daranno lezioni di musica ed ai più dotati (non ricordo con precisione questo passaggio) verrà insegnato a suonare la tromba.


A suonare? Lezioni di musica? Nel 1890? Proprio quando la fame mordeva maggiormente e tanti nostri conterranei erano pronti a imbarcarsi verso l’America, questi pensavano alla tromba? Ma come mai?

Oggi siamo pieni di musica. Ne abbiamo dalle radio sulle auto, in casa, in tv, sul computer, nei negozi e nei supermercati dove facciamo la spesa, nei bar, in molti ristoranti. Abbiamo accesso alla musica che vogliamo: si cerca sui canali dedicati, sui motori di ricerca. Non c’è limite: abbiamo tutta la musica che vogliamo. Ce la spariamo in cuffia mentre si va a spasso, con gli auricolari, mentre aspettiamo il nostro turno in coda.

Ho così cercato di ripensare ai miei ricordi di fanciullino, quando le audiocassette e le radio private cominciarono a rivoluzionare il mondo della musica. Prima c’erano i dischi, carissimi, delicati, di non facile approvvigionamento. Dove comprarli? Pochi i negozi disponibili. Ma poi, come si veniva a sapere che un cantante aveva inciso un nuovo microsolco?

Diffusi erano gli strumenti musicali. Dai racconti appresi casualmente pare che chitarre, clarini e fisarmoniche non mancassero mai. Dovevano tenerci veramente molto quelle persone: contadini, operai, gente tutto sommato povera che mangiava grossomodo sempre le stesse cose, e vestiva gli stessi panni per tutto l’anno. Eppure era importante avere una fisarmonica. La sera si poteva far ballare, ci si ritrovava con altri musicanti ed era facile far festa. E chi riesce a fare la festa assume su di sé qualcosa di sacro. Bastava un seccatoio, tre suonatori, un paio di ragazze, e dai cespugli intorno sorgevano giovanotti con la camicia buona e la brillantina, con due sigarette (comprate due per volta) per darsi un tono da adulti. E il trequarti era sempre lo stesso, e s’alzava presto la polvere. Usciva fuori pure una bottiglia di vino, forse due. Un sorso per uno. Anche allora nascevano risse, disgusti, amori duraturi o fugaci. I ragazzi chiassosi un po’ si somigliano. Certo: il vantaggio era che nessuno doveva condurre un’auto per tornare a casa, e questo facilitava la circolazione stradale.


In ogni caso, lo strumento musicale, come il libro, in questo mondo arduo e povero, rappresentava qualcosa di mistico, di superiore. Improduttivo ma importante. Chi lo deteneva si alzava sopra gli altri per qualcosa di incommensurabile.

Chi non aveva avuto possibilità di accedere a uno strumento, allora fischiava o cantava. Ancora fino a pochi anni fa si sentiva gente intenta al lavoro fischiettare armoniosamente. O anche cantare qualche vecchia canzone, con piacere, con il gusto per qualche piccola variazione, cercando la giusta intonazione, la forza, l’espressione.

Vien da chiedersi cosa è cambiato.

Perché la gente per strada non canta più. Non canta l’imbianchino, non canta il ragazzo del pane (ve lo ricordate lo spot con Ninetto Davoli che attraversa la città ancora buia, con la bicicletta, cantando “Tu mi fai girar…” a squarciagola…), manco si sente fischiettare. Se vedessimo uno che canta per strada da solo, ci verrebbe da chiamare qualcuno, da starci lontano.


Eppure per noi tirrenici (Italici in genere) il canto è sempre stato importante. Forse anticamente un rito pagano, un modo per riconoscersi rispetto ad altre tribù. Poi un canto che diventa una preghiera, e si codifica e si raffina quel tanto da formare una corale, a cantar la messa per la maggior gloria di Dio, la quale corale la domenica si ritrova all’osteria e canta il profano canto che non poteva essere cantato in chiesa. E se la Casa di Dio ha la sua musica e il suo strumento “dotto” (l’organo), allora deve averla anche il municipio, dove nascono le bande cittadine, figlie indirette delle fanfare militari. Ecco, mi viene in mette, tra una parola e l’altra, che imparare a suonare la tromba aveva da essere un prezioso bagaglio, una dote da portar seco per il servizio di leva: essere un trombettiere (o magari sapersi adattare a qualsiasi strumento a fiato, caratteristico di fanfare e bande militari) poteva fare la differenza tra una naja di servizi e di fatiche, ed una in posizione di riguardo, proprio sotto il pennone della bandiera.

E comunque emozionante visitare i nostri archivi comunali, nel faldone della “Banda cittadina” trovare le tantissime lettere inviate da gente comune, dalla grafia stenta, che si propone per entrare a far parte del complesso bandistico. Aggiungendo immancabilmente che però non hanno nessuno strumento. E che se il comune volesse comprare una tromba o un genis, loro si impegnerebbero per suonarlo. Procurarsi uno strumento è sempre stato difficile: un tempo per il prezzo, oggi perché non ci sono quasi più negozi di strumenti musicali. Sarebbe bello, sarebbe un indice di civiltà, per me, che si trovasse un negozio di strumenti musicali per ogni paese, e un concessionario di auto ad ogni capoluogo di regione… (e diciamo pure che di negozi di armi sarebbe bellissimo che non ce ne fosse bisogno per niente).

Insomma: l’auspicio che deriva da questa mia breve disanima è che mi piacerebbe un mondo nel quale la musica ce la facciamo per conto nostro, magari un po’ approssimativa, con qualche errore o stonatura. Ma siamo noi che ce la suoniamo, per il nostro semplice piacere. Mi piacciono le piccole bande paesane, un po’ scarruffate, con le loro belle marce scandite dalle percussioni e dai piatti, con le inevitabili miagolii di qualche legno un po’ troppo infreddolito o distratto. Ma vivo, umano, “fatto in casa”. Io credo che la cultura musicale parta da qui.

Oggi chi fa musica ha allargato e alzato enormemente il punto fino a dove si può arrivare. Non si suona, non si canta mai per noi stessi, per una festa in casa, per allietare un pomeriggio d’estate. Si canta per il palco, per le telecamere, per avere un vocal coach, per arrivare al televoto, alla sfida finale, per incidere il primo CD, per andare in radio, per avere il proprio nome in cartellone.


Niente di male in tutto questo, anzi: tutto quello che richiede impegno, tutto quello che porta allo studio serio di una disciplina, è, intimamente, positivo.

Se si potesse in qualche modo convincere le persone di tutte le età, che cantare e suonare non è di uso esclusivo di un concorso o di un sistema di trasmissione sarebbe una buona cosa.

La musica per la musica si dovrebbe poter fare anche per strada, anche senza pubblico, per il piacere di riempire l’aria con una melodia. E riscoprire la vecchia musica ed avere la forza di ricantarla con nuova voce e nuovi accenti è un’altra bella soddisfazione. E incontrarsi con un paio di strumenti (anche non degli Stradivari…) e cercare di farli funzionare, meglio che si può, ridendo e giocando. E non avere nella testa obbligatoriamente una gara, ma il placido divertimento e lo scambio di informazioni, e che tutto questo diventi consuetudine, ebbene, sarebbe un bel modo per passare una domenica pomeriggio, magari lontani da spettacoli “consigliati”, dalle macchinette mangiasoldi, dalla solitudine dei centri commerciali.

ALESSANDRO MARENCO

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