Alcune note su “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Qual è il senso della parola “meriggiare”?
Vediamo subito che si tratta del primo dei 5 verbi all’infinito presenti nella lirica, poiché gli altri due, palpitare e seguitare, sono in realtà degli infiniti sostantivati.
Compare inoltre un gerundio, “andando”, il quale con i due riflessivi-collettivi (“si rompono” e “s’intrecciano”) anch’essi concettualmente impersonali (a meno che non si voglia concedere alle file di formiche di avere una personalità sovraindividuale che le libera dall’automatismo), porta senz’altro ad affermare che il componimento è denotato impersonalmente dall’inizio alla fine, e che la originalità della parola in esame non è data dal suo raro utilizzo, ma piuttosto dal suo incerto valore lessico-semantico-grammaticale.
La difficoltà di inquadrarla sta nel fatto che ad ascoltare, spiare, osservare, sentire, si può idealmente assegnare una persona: la prima, quella dell’io-lirico, che vale anche come terza, perché al posto di quello specifico io-lirico potrebbe esserci un lui-lirico, oppure come seconda, con il tipico “tu” montaliano… Ma è così naturale assegnare una persona anche a “meriggiare”?
Dopo aver quasi esaurito le persone con cui coniugare, possiamo finalmente procedere ad un esperimento su come in concreto la soggettivizzazione si attui. Se, poniamo, delle diverse persone si sceglie la prima, ascoltare diventa ascolto; spiare diventa spio; osservare diventa osservo; sentire diventa sento e… E meriggiare?
Teoricamente saremmo in grado di riscrivere la poesia con queste modifiche; ma, appunto, all’atto pratico, quell’iniziale “meriggio” di

“[Io] meriggio pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascolto tra i pruni e gli sterpi […]

lo troviamo indigesto. Corretto, ma indigesto.
Cerchiamo di capire perché, considerandolo più attentamente.
Ebbene, constatato che abbiamo a che fare con un verbo personale e che perciò è giusto dire che l’io-lirico meriggia, c’è da aggiungere però che “meriggiare”, contro il dizionario ma in sintonia con il sentire comune, viene vissuto anche come il farsi del pomeriggio, il mostrarsi nella massima luce del mezzogiorno appena trascorso, coinvolgendo tutto quello che quella luce avvolge.

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In questo senso, se cioè il soggetto è il meriggio, allora la scena è quella di un’orchestra con il sole che la dirige.
In essa l’io da protagonista retrocede (sempre che la si possa ritenere una retrocessione) a occhio; o forse meglio a voce, a modo espressivo (visto che l’io è pure il poeta) del meriggio, il quale ultimo ora è insieme persona e situazione esistenziale degli enti nel divenire alla luce del mistero; persona e situazione esistenziale della natura che si autoausculta nell’eterno, ripetitivo parto delle sue forme di vita insidiata.
“Meriggiare” è un verbo che formalmente richiede un soggetto personale, ma accondiscende volentieri, molto volentieri, a che se ne faccia una lettura impersonale; un po’ come accade per una parola di una lingua straniera che tutti pronunciano male, e che quasi si pretende continui ad essere pronunciata così, per cui quando qualcuno la pronuncia correttamente, lo si giudica ignorante o snob.
Al fine di comprendere potremmo, con breve inciso, aiutarci con Gozzano.
In “Ipotesi” scrive: “La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento”, dove appare abbastanza evidente che “meriggiare” è equiparato ad un verbo impersonale come succede per tutti i fenomeni atmosferici, per cui non esiste il soggetto che fa da persona a, per esempio, piove, tuona o annotta.
Ecco, ribadiamo: una (non l’unica) difficoltà del verbo “meriggiare” sta nell’essere un verbo personale, ma nel venire, da molti se non da tutti, percepito contestualmente anche come impersonale, in metafora legandolo al motociclista solitario alla guida di un sidecar, che la gente non può fare a meno di vedere come colui che viaggia “insieme” a uno che non c’è!
L’istintivo ragionamento quando si sente pronunciare “meriggiare” é: “Se albeggia perché è il momento in cui il giorno si fa chiaro o annotta perché è il momento in cui il giorno si fa scuro, perché non dovrebbe meriggiare se è il momento in cui il giorno si fa giorno pieno, raggiungendo l’apice della luce e del calore (e producendo intanto per enantiosemìa anche il suo opposto, cioè ombra e frescura)?”
Detto ciò, vediamo che nell’ultima strofa l’incipit è dato da un gerundio: “andando”.
Si capisce subito che qualcosa di essenziale è mutato, che il testo ha decisamente mutato ritmo e prospettiva.
Non si tratta più di un quadro statico in cui il protagonista dal suo meriggiare registra ciò che lo circonda ascoltando quello che gli sta a un dipresso, spiando quello che gli sta vicinissimo e osservando quello che gli sta lontano, mentre lui è all’ombra di un muro (meriggiare letteralmente significa stare in riposo all’ombra durante le ore più calde dell’estate, e il muro dunque è rovente in conseguenza dei raggi che lo hanno colpito prima).
Ormai egli ha deciso di fare le sue constatazioni, e va a verificare.
Non meriggia più nel farsi del meridies, ma diventa spettatore-attore di esso.
E’ a questo punto che possiamo affermare di essere giunti finalmente ad esplicitare la nostra tesi di una parola che per sua natura coinvolge soggetto e oggetto.
Questa sorta di entità ibrida si muove e passa letteralmente gli enti in rassegna, coraggiosamente, col rischio di uscirne rassegnata.
Sente (però non è più il sentire fisico dell’orecchio, ma il sentire metafisico del cuore) che tutto è sofferenza e solitudine: ogni essere è solo, e così tanto che anche la serpe è lontanissima dall’essere vissuta come un pericolo, e quasi la vorrebbe compagna per avere a chi confessare e con chi condividere la propria pena.
Ma non è possibile: in questo spaccato di mondo bruciato ognuno fa per sé, come chiuso in un’asfissiante teca di vetro dove la pressione e oppressione delle domande fondamentali non evapora.
Il poeta, insieme creatore e frutto di quell’ambiente, andando, si mette in gioco. E perde.
Non sai più se è lui che séguita nel suo drammatico e stupito procedere o se sono le cose che séguitano ad apparirgli ed entrargli dentro.
E benché perlopiù si creda che il muro del secondo verso e la muraglia del penultimo corrispondano, bisogna rifiutare questa lezione. Non è giustificata da nulla.
Il muro presso cui il protagonista, pallido perché in ombra e pensoso per quello che vede accadere, è semplicemente una postazione presso che agevola la meditazione. Ma poi l’io-lirico si avventura per testare le sue osservazioni, e vede che lo riguardano, che anche lui in mezzo a tutto il resto, al pari di tutto il resto, è prigioniero. Che lui è, mutatis mutandis, il pruno, gli sterpi, il merlo, il suolo spaccato…
La muraglia è altro. Appare alla stregua di un fortilizio costruito apposta per non essere superato.
Il muro, dunque, viene lasciato alle spalle, e comincia il viaggio nella “triste meraviglia” di continuare a rinvenire durante il procedere sempre ulteriore conferma del male di vivere in cose animate e non.
E possiamo immaginare che ad ogni rivo strozzato, ad ogni foglia riarsa, ad ogni cavallo stramazzato…, la muraglia si allunghi a perdita d’occhio; che ogni passo ne dia conferma, correlativo dei singoli correlativi e simbolo ultimo.

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Alcune note su “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale”

  1. Amico mio, questa tua originalissima e acuta “lettura” della lirica più famosa degli “Ossi”, mi conferma nel giudizio che tu consideri “troppo generoso”: solo un poeta può “ascoltare” e “comprendere” anche quello che un testo poetico sottintende, al di là di quello che dice alla luce del “meriggio”.

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