Alcune note su “Forse un mattino andando in un’aria di vetro” di Eugenio Montale

Eugenio Montale

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Il poeta inizia con una preterizione che è anche una prefigurazione.
Dice che forse accadrà qualcosa che per come è detto, è chiaramente già accaduto.
Finge di immaginare l’esperienza che ha già avuto.
La descrizione che ne fa e l’abbattimento che ne ha, lo attestano. Se non apertamente, solo per lasciare negli uomini l’illusione che la sua vissuta scoperta nel reiterarsi dei rimandi, possa essere evitata, con il suo irreparabile punto di non ritorno.
La disperazione è già sua, ed il tacerlo è segno di quella pìetas che solo può rappresentare ciò che resta da scambiarsi tra gli umani. L’unico aiuto vero, e sincero al punto da essere dato senza che chi lo riceve sappia del dono di cui è gratificato.
L’io poetante, questa presenza mezzo carne e mezzo spirito che aleggia in una sorta di non luogo atemporale, accerta nella sua percezione, tanto più tragica in quanto trascendentale ed eterna, l’immutabile destino dell’uomo come comparsa inconsapevole o come, molto più raramente,  modalità del burattino disperato all’accorgersi che la sua recita è nel buio di una platea vuota alla quale il messaggio del suo vuoto simmetrico non giungerà.
Il poeta non deve cioè attendere un momento in cui si troverà faccia a faccia col nulla. E non dovrebbe, se restasse alla sua realtà, immaginarlo. Quel momento lo ha già vissuto.

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E’ come se confessasse di una sua prefigurazione avuta in passato, poi vista da quello stesso osservatorio del passato, e infine realizzatasi in un tempo successivo, ma ormai, anch’esso, trascorso.
Ecco, il poeta è sdoppiato tra colui che immaginava l’accadere di un evento, e colui che, nel presente, parla mettendosi nella sua mente di allora ma con la consapevolezza di ora.
Egli ha già scoperto il vuoto. Come un nodo scorsoio, come una condanna.
Ma se deve confessare la storia della scoperta, se deve darle un luogo e un modo, ecco, direbbe che nella definitività del mattino, quando il pensiero non è attenuato dalle ombre del crepuscolo o abbagliato dai raggi potenti del primo pomeriggio ed in essi non può trovare nessun velo che gli permetta di mentirsi, guarda da dentro un’aria di vetro, traducendo quell’aria, quell’atmosfera tagliente, in una lucida visione della verità.
Rivolgendomi, dice. Non semplicemente volgendomi. Perché è una postura esteriore che implica uno stravolgimento interno.
Quando si volge indietro infatti, sa già a cosa andrà incontro.
Non è un volgersi casuale. E’ un volgersi richiesto da tempo e dal tempo, nonché dall’esigenza di  non abdicare ad una verità sia pure impietosa, e che solo ora l’impalpabile protagonista (è lui mescolato in una medesima persona con i rari suoi simili) attua perché ha trovato il coraggio di testarne le conseguenze nel pieno del mattino, nell’incontrovertibilità della luce.
E il miracolo non sarà il darsi dell’inaspettato, ma il certificarsi della pervasività di esso.
Il poeta capisce il presente e il futuro non semplicemente guardando il suo passato, quello che ha fatto e lasciato alle spalle, il suo percorso; quindi non solo volgendosi indietro, ma rivolgendosi al passato.
Non è solo un gesto, è anche una domanda.
La risposta è il nulla, è l’eco di uno sguardo.
Il miracolo di avere creduto alle forme (alberi, case, colli) del nulla come se naturalmente fossero, come qualcosa di sostanziale, come l’epifania dell’essere.
E’ quello che c’è dietro le spalle che dà la misura della grande illusione.
A mano a mano che si avanza e quanto sta innanzi a noi viene lasciato alle spalle, riprende le sue fattezze originali, e resta solo la cornice di un senso funzionale alla sopravvivenza entro la quale si può infilare la testa.
Il vuoto dietro quando ci si volge indietro, rischia di risucchiarci, di farci pensare che anche il futuro diventerà passato prima o poi, e quello che ancora ci illudiamo abbia un senso, è destinato a mostrarsi per quello che è.
Poi, come in una gestalt degli inganni, la configurazione acquisirà in uno scatto del tempo e in uno scarto di prospettiva, l’altro modo di esistere, che è il naturale istintivo resistere al vuoto: quello di credere alla vita dello schermo, nella quale ci immergiamo impazienti, perchè ci difende dalla vita fuori della tela di spettatori senza storia.
E’ “l’inganno consueto”, è l’universo della Chiacchiera del “Chi a chi?”, è l’analgesico strutturale.
Ma ormai il segreto è disvelato. Se è profondo il vuoto è profonda la scoperta. Non si può far finta di niente sul niente.
Resta il silenzio, che è di inesprimibilità, o d’amore per chi vive camminando tranquillo sul lago ghiacciato, o di entrambi.
Mantenendo un simile segreto, che è solitudine infinita, che è essere schiacciati dal vuoto perchè non se ne può e vuole condividere il peso, questo fantasma accasciato sui suoi passi, questo eroe insulso, permetterà agli “uomini che non si voltano” di continuare a salvarsi dalla malattia che non sanno di avere, e che li scamperà fino a che per l’infausta intelligenza dell’io o per la cruda casualità degli eventi, non vedranno “compirsi il miracolo”.

FULVIO BALDOINO

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