Al di sopra del bene e del male

AL DI SOPRA DEL BENE E DEL MALE
Sembra proprio che, in certi casi, la realtà superi la più inverosimile, assurda, mostruosa, diabolica delle fantasie

 

 

   AL DI SOPRA DEL BENE E DEL MALE

 

 Sembra proprio che, in certi casi, la realtà superi la più inverosimile, assurda, mostruosa, diabolica delle fantasie. Che nella persona umana possano coesistere diverse personalità in conflitto le une con le altre, non era necessario aspettare gli Studi sull’isteria (1892 – 1895) e L’interpretazione dei sogni (1899) del dottor Sigmund Freud, o i Sei personaggi in cerca d’autore (1921) di Luigi Pirandello per scoprirlo; lo sapeva bene Paolo di Tarso fin dal I secolo dopo Cristo: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto.
 

Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene, c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me” (Rm 7, 15-20). Come dire che il peccato che abita nella carne di San Paolo è più forte del suo desiderio di fare il bene; e se il desiderio di un santo di compiere il bene soccombe di fronte alla forza del peccato, cioè del male morale che abita nella sua carne, come e quanto può resistere il desiderio di bene di un povero diavolo di fronte al male che in lui coabita con il desiderio di fare il bene e di fuggire dal male, come in tutti gli esseri umani? Ora poniamo il caso che io commetta un delitto efferato, così, tanto per provare l’effetto che fa sentirmi padrone della vita e della morte di un mio simile, per provare l’ebbrezza di sentirmi  superiore alla legge umana e anche a quella divina, almeno una volta nella vita (salvo ripensamenti); ebbene, in questo caso chi è il colpevole del delitto efferato? Sono io o il peccato, cioè il male che abita in me? Come è possibile dissociare l’azione delittuosa dal soggetto che la compie? Se non sono io ad aver ucciso per il gusto di uccidere chi è che ha ucciso “la povera vittima” del male che abita in me? E come potrò giustificarmi quando sarò messo di fronte a un giudice? Potrò forse dire: “Sa, signor giudice, in quei terribili momenti in cui infierivo sulla povera vittima sacrificale non ero io a infierire ma il male che abita in me come in tutti”?


Paolo di Tarso

Peccato che il codice penale non faccia distinzione tra la persona che commette il delitto e il male che la abita, per il codice penale si tratta di accertare la responsabilità di chi è accusato di omicidio premeditato e aggravato, e di comminare la pena adeguata al delitto commesso. Già, la pena adeguata; ma quale pena sarà mai adeguata a un simile delitto? Se io ho torturato e poi ucciso per il gusto di fare del male a un mio simile, che cosa mi posso aspettare dai miei simili? Comprensione? Pieta? Compassione? Solidarietà? Se io mi pongo al di sopra del bene e del male, che cosa mi posso aspettare dalla giustizia umana e da quella (se c’è) divina? Evidentemente voglio, o meglio, ho voluto dimostrare a me stesso di non temere né il giudizio umano, né quello di un Dio che se ne sta lassù nei cieli a guardare fino a che punto può arrivare la volontà distruttiva e autodistruttiva di un animale (dis)umano che tortura e uccide per divertimento (altrimenti sarebbe intervenuto in difesa della povera vittima sacrificale), né quello della mia coscienza che ho provveduto da tempo a tacitare con massicce dosi di alcool e droga. A questo punto non mi resterebbero che due soluzioni: o convertirmi (e quindi scontare fino in fondo la pena di vivere con un peso così insopportabile sulla coscienza) o suicidarmi. Ma niente e nessuno potrà mai resuscitare quella povera vittima sacrificata alla mia miserabile e demenziale volontà di potenza.

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