Agosto 2019: colpo di sole o colpo di Stato?

Agosto 2019: colpo di sole o colpo di Stato?

Agosto 2019: colpo di sole o colpo di Stato?

 Che cos’è la verità? I Greci ne davano una definizione negativa: a-létheia, disvelamento, e aprivano così la strada a sottili quanto inutili – almeno sul terreno della prassi – elucubrazioni metafisiche. Più prosaicamente e al riparo da tentazioni filosofiche la verità è una corretta descrizione dei fatti; che  non è affatto una banalità perché la descrizione presuppone un descrittore ed è pertanto sempre soggettiva. Qualcuno ricorderà il celebre Rashomon, una sorta di incrociatore Potemkin giapponese, uno di quei film che hanno fatto la storia del cinema: una storia, tre protagonisti, tre verità e la domanda senza risposta: che cosa è veramente successo? 

La verità quindi potremmo definirla come la descrizione sincera – ma soggettiva – di un fatto, il cui opposto è il suo intenzionale travisamento. Poi però ci sono le prove, c’è il supporto documentale della descrizione dei fatti e per questo aspetto la tecnologia ha un ruolo decisivo, perché è in grado di fissare i fatti e di riproporli tali e quali. E da questo non si scappa.


Vengo al punto. Riguardo alla legittimità del governo giallorosso e, di conseguenza, allo stato della democrazia nel nostro Paese ci sono opinioni discordanti. Le opposizioni, con maggiore o minore convinzione, lo ritengono illegittimo perché non sorretto dalla volontà popolare, i suoi sostenitori, Costituzione alla mano, ne rivendicano la piena legittimazione parlamentare. L’argomento delle opposizioni è politicamente rilevante ma non è affatto decisivo: nel corso della legislatura i sondaggi possono rilevare fluttuazioni nell’elettorato ma in democrazia non sono certo i sondaggi, né le manifestazioni di piazza, a decidere della sorte dei governi. Ci sono, è vero, gli esiti delle consultazioni regionali  ma, almeno entro limiti ragionevoli, possono essere confinati  in un ambito amministrativo e locale. La questione è malposta: non riveste alcun interesse la circostanza che in parlamento ci sia oggi una maggioranza che sostiene il governo, è il modo col quale questo governo si è formato che ne compromette la legittimità ed è su questo che per motivi diversi oppositori e sostenitori evitano di confrontarsi, avallando un clamoroso stravolgimento dei fatti e dei tempi per nascondere in modo fraudolento il peccato originale della sua nascita. Perché che Salvini e la Lega abbiano sfiduciato il governo e che, di conseguenza, Conte sia stato costretto  a rimettere il mandato nelle mani del capo dello Stato è una fake news, una menzogna. Non è andata così.


Troppo spesso quando la verità si presenta dentro una  cornice sfocata, accompagnata da argomentazioni inappropriate, mischiata e confusa con opinioni e divagazioni, diventa chiacchiera, banalità, luogo comune  e anche le circostanze più gravi  e sconvolgenti perdono la loro carica esplosiva come polveri infradiciate. Stampa, televisione, opinionisti di regime in questo campo sono maestri.  La loro specialità è confondere, attutire, depotenziare, scolorire verità scomode come quella del colpo di Stato che ha portato alla formazione del governo  giallorosso e che, di fatto, ha messo il Paese nelle mani degli ex o post comunisti contro la volontà della stragrande maggioranza degli italiani.

Premessa:  il Presidente della Repubblica nomina il Capo del governo e, su proposta di quest’ultimo, i ministri.  Ma perché questo atto formale abbia effetto e  il governo entri in carica ed assuma le sue funzioni bisogna che riceva la fiducia delle due Camere.  È da essa che trae la sua legittimazione e il suo potere in tutto il corso della legislatura. Il parlamento può non avallare singoli provvedimenti del governo, che è tenuto a ritirarli o correggerli ma non per questo si deve dimettere;  potrebbe semmai verificare se gode ancora della fiducia delle Camere, cioè se ha ancora una maggioranza che lo sostiene,  ma  rimane in piedi finché non viene formalmente sfiduciato. Questo è uno dei principi cardine del nostro ordinamento. Berlusconi, che si dimise per non subire l’onta della sfiducia, si rese responsabile di un vulnus alla carta costituzionale, con il consenso interessato di  chi ne aveva orchestrato la defenestrazione. Non è una scusante, ma è doveroso riconoscere che con la transumanza di deputati e senatori era certo che il suo governo era ormai privo di maggioranza. Di norma, finché c’è una maggioranza parlamentare che lo sostiene, il governo deve continuare il suo lavoro: su questo, ripeto, non ci possono essere dubbi. Il problema della perdita di consenso popolare se lo devono semmai porre partiti e singoli parlamentari che continuano a sostenere il governo in carica; ma in politica come nella vita nessuno può essere obbligato ad essere leale.  


Torniamo alla giornata parlamentare del  20 agosto 2019,  quella che segna la fine dell’esperienza gialloverde, e facciamolo nel modo più semplice e diretto, guardando quello  che è successo, non la sua descrizione ma la sua registrazione. La questione della fiducia al governo non è all’ordine del giorno, Salvini siede al banco del governo, è ancora a tutti gli effetti ministro degli interni.  Nessuna forza politica ha chiesto in parlamento le dimissioni del governo, non c’è alcuna una mozione di sfiducia: quella che era stata predisposta dalla Lega è stata ritirata. Non c’è nulla, nulla, da votare. Da mesi i vecchi alleati di Salvini, Forza Italia e Fratelli d’Italia, chiedevano che la Lega abbandonasse la coalizione ma Salvini faceva orecchi da mercante. Un’insistenza martellante, ossessiva, come se il governo gialloverde fosse il peggiore dei governi possibili, la rovina del Paese, l’apocalisse, che aveva come quotidiane interpreti la Gelmini, la Bernini, la Meloni. Ma Salvini tirava dritto per la sua strada, non si scomponeva, non ricordo una sola risposta, una sola reazione a tanta insistenza: semplicemente la ignorava. 


Ma non poteva ignorare le trame che si ordivano all’interno della coalizione tese a minare la sua credibilità, a ostacolare la sua azione politica e semplicemente a minacciarlo. Trame che in modi diversi coinvolgevano la cosiddetta sinistra del movimento con in testa il presidente della Camera, la redazione del Fatto e personaggi esterni. I Cinquestelle erano terrorizzati dalla crescente popolarità del Capitano, che guadagnava consenso con la politica dei porti chiusi, ma non potevano abbracciare la posizione dei fautori dell’accoglienza, tant’è che sul Fatto, non avendo altri argomenti, si denunciava il fallimento dei respingimenti, come se fosse semplice ributtare a mare chi si è fatto sbarcare.  Ma Salvini non era solo l’uomo dei decreti sicurezza o del contrasto all’invasione: pressato dal suo elettorato oltre che per convinzione personale intendeva sbloccare i cantieri, rivedere il codice degli appalti, risolvere in un modo o in un altro i nodi dell’ex Ilva, del Tav, di Alitalia, rimodulare le aliquote fiscali. E per converso, con l’illusione di mantenere così la loro identità, i grillini facevano resistenza, bloccavano l’azione di governo fino al punto di smentire sulla linea ad alta velocità il loro uomo alla presidenza del Consiglio. Si sarebbe per questo sfasciata la coalizione? Non credo proprio. C’era ben altro a minarla, qualcosa che si svolgeva a quel livello torbido e criminale nel quale dall’assassinio di Moro in poi si sono giocate le sorti della repubblica. Ed ecco le minacce palesi ed occulte, i dossier, la spada di damocle della magistratura, i 49 milioni, il russiagate, la moto d’acqua, e, c’è da scommetterci, qualche trappola che stava per scattare, a partire dalla mozione di sfiducia contro di lui depositata dal Pd il 24 luglio, per non dire del gran daffare dei magistrati  e dei rilievi del Quirinale. Tutto in un clima di trasversale opposizione a Salvini, dentro e fuori la maggioranza, da un pezzo del movimento al Pd, da Forza Italia al partitino della Meloni.  Salvini avvertiva il pericolo e cominciava a minacciare sfracelli: così non si può continuare, mi serve più potere, se non si esce dall’impasse meglio porre fine alla legislatura e tornare alle urne; e non ha mai detto, si noti, di volerci tornare col centrodestra, sembrava piuttosto guardare oltre i partiti rivolgendosi agli umori popolari  anti sistema. Minacciava sfracelli  e annunciava il ritiro della delegazione leghista per evitare di rimanere dentro il trappolone che gli veniva preparato:  a questo scopo aveva pubblicamente annunciato la crisi e il 9 agosto aveva depositato in Senato una mozione di sfiducia al governo di cui era parte, una mozione che doveva essere calendarizzata e sottoposta al voto.  Ma questo passaggio non è mai avvenuto. 


Circolavano con insistenza voci di un patto fra Pd e Cinquestelle che rinfrescavano il ricordo dell’ambiguo rapporto fra Conte e la Merkel, un patto suggellato il 16 luglio  con l’elezione di Ursula von der Layen grazie ai voti decisivi dei grillini folgorati sulla via di  Strasburgo, e alimentava il sospetto che la mozione del capogruppo dem fosse stata concordata con qualche esponente della maggioranza. Excusatio non petita accusatio manifesta, si dice. E il 9 agosto Di Maio, allora leader del Movimento,  respingeva sdegnosamente l’ipotesi di un’intesa col Pd, bollandola come una bufala per screditare il Movimento e  postava su Facebook:  “Nessun problema ad andare al voto. Anzi, dopo quello che è successo ci corriamo alle urne” e, riecheggiando Casaleggio che aveva accusato la Lega di frenare sul taglio dei parlamentari, invitava Salvini a fare un atto di coraggio, falcidiare “l’esercito di privilegiati che ingolfano il Paese a cui noi (i Cinquestelle) stavamo per tagliare gli stipendi” e poi andare al voto. Ma intanto al tema della riduzione del numero dei parlamentari, che Salvini si dichiarava disposto a votare senza riserve e non poteva più essere usato come un’arma contro la Lega, si aggiungeva quello dell’Iva e delle clausole di salvaguardia, agitato dalla stampa per scongiurare il voto. In pochi giorni stava verificandosi un capovolgimento: se prima le elezioni erano il risultato inevitabile della crisi ora si cominciava a dire che andare a votare sarebbe stata una follia. E non era necessario avere capacità divinatorie per capire che quello dell’Iva sarebbe diventato il pretesto per non sciogliere le Camere mentre appariva sempre più chiaro che il voto europeo del 16 luglio che aveva visto affiancati democratici e Cinquestelle era un segnale inequivocabile di una svolta, se vogliamo una piroetta, del Fondatore, dal quale proprio il 10 agosto era venuto un attacco scomposto alla Lega di Salvini e un’implicita apertura al Pd. In queste condizioni le rassicurazioni di Di Maio valevano meno di zero –  e Salvini cominciava a capire che quelle ricevute da Mattarella non valevano di più – e la mozione di sfiducia al governo rischiava di essere un regalo a Conte e di spianare la strada a Fico, ai suoi sodali e ai suoi burattinai. Quindi, dietrofront, e il 20 di agosto la mozione di sfiducia viene ritirata mandando nel panico Conte, e non solo lui. A questo punto non si poteva più dire che Salvini e la Lega avevano fato cadere il governo. Ma allora chi l’ha fatto cadere?


Quando sembrava che la Lega dovesse farlo cadere, Conte rivendicava in un post su Fb la bontà dell’azione di un governo che tanto aveva fatto e tanto si accingeva  a fare. Di conseguenza nel momento in cui la crisi era scongiurata lo stesso Conte avrebbe dovuto esultare per lo scampato pericolo: il governo va avanti per il bene dell’Italia, rimbocchiamoci le maniche e continuiamo a lavorare. Invece no. Conte appare disperato,  come se qualcosa fosse andato storto e la stessa disperazione serpeggia negli ambienti grillini vicini al presidente della Camera. E al Senato il 20 agosto succede qualcosa di surreale. Conte aggredisce il suo ministro in un modo che non ha precedenti nelle democrazie occidentali, lo rimprovera esplicitamente di non avere avuto il coraggio di presentare la mozione di sfiducia e annuncia a sorpresa che se la Lega non intende più far cadere il governo a farlo cadere ci penserà lui rimettendo l’incarico al capo dello Stato.

A questo punto dal capo dello Stato ci si poteva aspettare che rinviasse il premier alle Camere per verificare nel suo luogo naturale, il Parlamento, se esistesse ancora una maggioranza a sostegno del governo. Mattarella si è guardato bene dal farlo. Si noti anche che Salvini non si era limitato a ritirare la mozione di sfiducia ma aveva formalmente accettato la proposta di Di Maio di votare immediatamente il taglio dei parlamentari che per i grillini fino al giorno prima pareva dirimente, la conditio sine qua non per andare avanti. 


Eppure si è imposta come verità incontrovertibile una menzogna incontrovertibile: Salvini ha provocato la crisi di governo nell’agosto 2019 aprendo, lui, la strada alla nuova maggioranza parlamentare giallorossa. Che Salvini abbia fatto di tutto per evitare la crisi, fino ad offrire  a Di Maio la presidenza del consiglio, pare che tutti se lo siano dimenticati, come si sono dimenticati che a fare il tifo per la crisi non erano solo i compagni e l’inquilino del Colle ma il redivivo Berlusconi, la Meloni e, per motivi oscuri e probabilmente squisitamente personali o familiari, Beppe Grillo, sotto schiaffo della magistratura, nonché tutto, dico tutto, il sistema mediatico, quello stesso che a distanza di qualche mese ha messo in giro la storiella del colpo di testa, o di sole, di Salvini.

Salvini ha sempre cercato di sottrarsi al cappio di Forza Italia o di farsi schiacciare sull’ideologia passatista e la demagogia inconcludente della Meloni. È l’unico leader europeo che ha coerentemente dimostrato di essere oltre le categorie artificiose e strumentali di destra e sinistra e su questo terreno diventava naturale l’alleanza con i Cinquestelle, rappresentati purtroppo da una banda di toccati dalla fortuna per una manciata di voti e poco disposti a mettere a repentaglio quello stesso lauto stipendio che da militanti avevano combattuto. Potevano in teoria salvare capra e cavoli:  la loro situazione personale e le aspettative di chi li aveva votati: bastava scaricare Conte, che si era spinto troppo oltre, e procedere a un rimpasto.  Salvini avrebbe capito, anche perché da solo le elezioni non avrebbe potuto vincerle. Evidentemente non potevano farlo e quella di Conte non era stata un’intemerata estemporanea. Sette anni dopo si comincia a capire qualcosa sull’assedio giudiziario a Berlusconi guidato “dall’alto”. Ci vorrà molto meno per svelare chi sono stati i manovratori  ferragostani in Europa e oltre atlantico, a casa nostra, sul Colle o sul Soglio romani, gli stessi che hanno reso  il cicisbeo, che non sembra uno disposto ad andare allo sbaraglio, così sicuro di sé, gli stessi che hanno convinto Grillo a starsene quieto  e godersi il mare di Bibbona e  i grillini a pensare alla pagnotta senza porsi troppe domande.

Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

 

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