A squola di Covid

Se tutto va bene la scuola riaprirà i battenti il 14 settembre per richiuderli il 21 e 22, causa referendum.

Ciò ha un senso? Non era più logico posticipare l’apertura?

Al di là delle facili polemiche il vero problema è la qualità dell’istruzione non tanto dei nostri ragazzi ma dei futuri cittadini italiani.

Il Covid danneggerà irrimediabilmente anche le prossime generazioni e la prossima classe dirigente?

Sono questi gli interrogativi che dovrebbero assillare i politicanti molto più delle forme dei banchi o dei metri quadri delle aule.

Nonostante la classe politica degli ultimi decenni tenda a dimenticarlo, la scuola ha sempre avuto un valore aggiunto in termini di integrazione culturale, non solo tra etnie diverse, ma anche tra classi sociali differenti.

Brian A. Wandell nel suo libro Learning to See Words dichiara che imparare a leggere influenza positivamente lo sviluppo del cervello dei bambini. Si ipotizza che tale incremento di connettività cerebrale riduca i deficit cognitivi (sia nei bambini che negli adulti) e l’invecchiamento cerebrale. 

Maryanne Wolf afferma che a cinque anni alcuni bambini cresciuti in ambienti linguisticamente poveri hanno ascoltato 32 milioni di parole in meno rispetto al tipico bambino appartenente al ceto medio e che nella maturazione linguistica del bambino, niente è isolato e senza conseguenze. La povertà verbale non danneggia solo il linguaggio ma anche la riflessione. 

Non ascoltare certe parole significa non imparare certi concetti. 

Non incontrare certe forme della sintassi vuol dire capire meno i nessi tra gli eventi di un racconto. 

Non conoscere le forme del racconto vuol dire essere meno in grado di dedurre e prevedere.

 

Anche Gustavo Zagrebelsky nel saggio Sulla lingua del tempo presente, evidenzia come la lingua e il suo uso siano, di fatto, gli unici strumenti che possiede l’uomo per avvicinarsi o separarsi da altri uomini, per sentirsi parte identitaria di un gruppo o per differenziarsi da esso. 

Zagrebelsky scrive: “Quello che importa è che effettivamente noi non solo pensiamo in una lingua ma la lingua «pensa con noi».

Nelle dittature ideologiche, la lingua è un formidabile strumento di propaganda.

Non a caso Joseph Goebbels, il potentissimo ministro della propaganda del Terzo Reich, fu il maestro e l’inventore della “strategia” persuasiva del popolo attraverso l’uso ossessivo e ripetitivo di determinate parole e frasi: “Ripetete una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità”.

Tullio De Mauro, uno dei più grandi linguisti italiani, sostiene che “il 70% degli italiani non capisce quello che legge (…) 8 italiani su 10 hanno difficoltà a utilizzare quello che ricavano da un testo scritto, 7 su 10 hanno difficoltà abbastanza gravi nella comprensione, e 5 milioni di italiani hanno completa incapacità di lettura. Un nostro diplomato nella scuola media superiore ha più o meno lo stesso livello di competenza di un ragazzino di 13 anni che esce dalla scuola media: i 5 anni di scuola media superiore girano a vuoto e questo determina un bassissimo livello di quelli che entrano all’università. Il risultato è che i diplomati di scuola media superiore in molti paesi hanno livelli di competenza linguistica, matematica, di comprensione, di calcolo ben superiori a quelli dei nostri laureati. Abbiamo bisogno di un buon livello di istruzione per poter trovare le fonti buone per informarci e per utilizzare bene queste informazioni, per utilizzarle criticamente! Questo sarebbe indispensabile per tutti, per un buon esercizio del voto”.

Si parla poco o nulla del valore dell’istruzione, dell’impulso che la cultura  ha nell’economia e nella democrazia reale, dati che dovrebbero, invece, iniziare ad essere tenuti in considerazione ed essere le fondamenta su cui costruire il dopo Covid.

In Europa, le nazioni che registrano il più alto numero di lettori sono anche quelle che hanno il più elevato potere d’acquisto procapite, la più bassa disoccupazione, la più alta crescita.

Nel libro bianco “Sfida al futuro”, una  ricerca commissionata dall’Associazione Italiana Editori in occasione dei suoi 150 anni, e realizzata da un pool di ricercatori dell’Università di Bologna e del Piemonte orientale (Antonello E. Scorcu, Laura Vici e Roberto Zanola)  conferma l’esistenza di un  nesso tra lettura e sviluppo economico e sociale.

Le regioni con più alti tassi di lettura hanno fatto registrare tassi di crescita della produttività più alti, anche a parità di altri fattori, sia riferiti a variabili strettamente economiche, sia connessi al capitale umano, quali i livelli di istruzione formale.

Nelle regioni con tassi più elevati di lettura si producono tassi di crescita della produttività di assoluto rilievo, in grado di cambiare le capacità competitive delle zone in cui si verificano. Ciò dimostra il legame tra la dinamica della produttività del lavoro e quella degli indici di lettura, nel senso che l’indice di lettura esercita un effetto significativo sulla dinamica della produttività del lavoro.

In altre parole investire in promozione della lettura, specie nelle zone con tassi di lettura più bassi, è evidentemente un necessario investimento per la crescita del Paese.

Dallo studio si evince che piani organici e prolungati nel tempo per lo sviluppo della lettura, dell’istruzione, delle infrastrutture dedicate (biblioteche pubbliche e scolastiche, librerie) sono leve di sviluppo da manovrare per ottenere una crescita non solo culturale ma anche economica. 

I dati della tabella sono lì a dimostrarlo.

 

Il fatto che in Europa ci collochiamo in fondo al ranking della lettura è correlato con un altro dato: la bassa percentuale di popolazione italiana in possesso di titoli di studio superiori e in particolare di laurea.

Anche il Consiglio d’Europa ha lanciato uno strumento per aiutare i governi a rafforzare la democrazia attraverso la Cultura: l’Indicatore Quadro su Cultura e Democrazia, detto anche IFCD (Indicator Framework on Culture and Democracy)

Con la risoluzione n. 2123/2016 l’Assemblea Parlamentare del Consiglio Europeo ritiene che le politiche educative dovrebbero essere riviste e utilizzate come una forza motrice nel mondo d’oggi e raccomanda lo sviluppo di una formazione culturale atta a rivestire un ruolo importante nel promuovere il dialogo e la comprensione reciproca e rafforzare la solidarietà e il rispetto dei diritti umani…LEGGI

Per concludere riportiamo un’indagine di Eurostat.

Nel 2018 l’istituto di statistica indicava che la media Ue28 di popolazione tra i 30 e i 34 anni in possesso di un titolo di formazione terziaria era passato dal 26,3% del 2002 al 40,7%.

Vistose però le eccezioni: tra i 28 Paesi dell’Ue il nostro è fanalino di coda con il 27,8% di laureati (nel 2002 erano il 13,1%), precedendo solo la Romania (24,6%). 

L’Italia è anche tra i Paesi che contano più abbandoni degli studi (il 14,5% abbandona dopo il primo ciclo della secondaria), dopo Spagna (17,9%), Malta (17,5%) e Romania (16,4%)… LEGGI

Alla luce di tutto ciò ha senso discutere sulle dimensioni dei banchi? 

Non è forse meglio iniziare a pensare come poter rendere efficace la formazione dei nostri ragazzi, iniziando a considerare la possibilità che salvaguardare la loro salute non debba andare a discapito della loro formazione?

Se così non sarà, quale futuro per l’establishment e la società italiana di domani?

 

CRISTINA RICCI

I LIBRI DI CRISTINA RICCI

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