A chi può piacere la Turchia di Erdogan?

A CHI PUO’ PIACERE
LA TURCHIA DI ERDOGAN?
(Dedico questo articolo a Hevrin Khalaf, l’attivista e politica curda martoriata e uccisa da miliziani filoturchi il 12 ottobre scorso)

A CHI PUO’ PIACERE LA TURCHIA DI ERDOGAN?

 (Dedico questo articolo a Hevrin Khalaf, l’attivista e politica curda martoriata e uccisa da miliziani filoturchi il 12 ottobre scorso)

Hevrin Khalaf

Premetto che adoperare il termine “piacere”  nel formulare un giudizio storico-politico  ha senso solo da un punto di vista soggettivo: guai se il criterio per giudicare le scelte, le decisioni e l’azione di un leader quale che sia fosse basato sui gusti (o i disgusti) personali di uno  storico o di un notista politico della carta stampata o di una testata online come questa sulla quale sto scrivendo, come sanno gli studiosi seri quando si vuol trattare una questione di politica interna o internazionale oppure di valutare la personalità e quindi l’azione  politica di un determinato leader, è buona regola mettere da parte le proprie simpatie o antipatie o posizioni ideologiche e osservare senza occhiali di sorta, cioè senza pregiudizi, il fenomeno in esame. Giusto; nondimeno capita spesso che alcuni commentatori e alcuni notisti cartacei o in Rete assomiglino più a militanti faziosi che a osservatori imparziali.  


Prendiamo il caso della guerra tra turchi, curdi e siriani tuttora in corso: dove stanno le ragioni e i torti? Dove passa il confine che divide l’amico dal nemico, il carnefice dalla vittima, la civiltà  dalla barbarie in quella polveriera che è  il Medio Oriente? Senza contare che in quell’area non sono solo in gioco le rivendicazioni dei Paesi direttamente coinvolti nei conflitti locali permanenti che – effetto collaterale non secondario, costringono la popolazione civile alla fuga e ad affrontare qualunque rischio pur di non morire sotto le bombe governative o antigovernative, autoctone o straniere – ma i corposi interessi strategico-economici di superpotenze mondiali come gli Stati Uniti, la Russia e anche quelli della debole, confusa e come al solito divisa Ue (la Cina per il momento sta a guardare). Ma, tornando alla domanda iniziale sulle ragioni e i torti dei turchi, dei curdi e dei siriani, non si può rispondere se non si ha cognizione delle cause scatenanti di questo nuovo conflitto mediorientale.


Vediamo di mettere in ordine i fatti inoppugnabili sui quali c’è poco da opinare: che cosa ha mosso la Turchia ad attaccare le milizie curde? Erdogan, che insiste da anni sulla necessità di realizzare una zona di sicurezza per mettere al riparo la Turchia dalla minaccia terroristica rappresentata dai curdi insediatisi nel nord della Siria, e che si erano dichiarati pronti a combattere anche se nettamente inferiori di fronte alla potenza militare turca (potenza militare, non dimentichiamolo, anche grazie agli armamenti provenienti fino a ieri dall’ Unione Europea) che ha colto l’occasione del ritiro delle truppe americane dalla Siria per attaccare i curdi – invadendo, sia detto a futura  memoria per i sovranisti di tutto il mondo, il territorio di uno Stato sovrano – i quali, dopo una strenua ma vana resistenza iniziale, hanno preferito ritirarsi per evitare di essere sterminati. Ma i curdi stanziati in quel territorio siriano a ridosso del confine meridionale della Turchia rappresentavano veramente una minaccia per i turchi?

Se consideriamo un po’ più da vicino la motivazione ufficiale di Ankara per attaccare i curdi non possiamo non accorgerci della sua pretestuosità, infatti sono state proprio le milizie curde a combattere sul terreno contro l’Isis, non certo l’esercito turco, anzi, la Turchia ha stranamente permesso a migliaia di foreign fighter di attraversare senza difficoltà il suo territorio per raggiungere gli avamposti del sedicente Stato islamico. Nemmeno la paventata minaccia di una ripresa del terrorismo curdo interno è plausibile, dal momento che il PKK ha abbandonato la lotta armata da almeno dieci anni e che il popolo curdo sta finalmente per raggiungere una sua autonomia nel territorio siriano conquistato sul campo combattendo contro il Califfato. Il fatto è che la regione siriana fino a ieri controllata dalle milizie curde è ricca di petrolio, e questa sembra una motivazione ben più concreta di quella ufficiale, tanto più che Erdogan deve fronteggiare la crisi economica che sta mettendo la Turchia alle strette. Non per niente il premier turco va battendo cassa presso l’Ue e minaccia di riaprire la rotta balcanica dell’immigrazione in caso di embargo contro la Turchia.  


Dunque è proprio il caso di dire che non è tutto oro quel che luce. Ma chi è esattamente Erdogan? E’ il leader di un partito islamico chiamato “Giustizia e sviluppo”, ideologicamente contrario alla riforma con la quale Kemal Ataturk aveva trasformato l’impero Ottomano, dopo la fine della prima guerra mondiale, in una repubblica laica. Negli anni in cui era sindaco di Istanbul aveva recitato pubblicamente una poesia in cui si proclamava “Le moschee sono le nostre caserme. I minareti  sono le nostre baionette. Le cupole sono i nostri elmetti. I fedeli sono i nostri soldati. Allah akbar! Allah akbar!”. Fu condannato e si fece dieci mesi di prigione per incitamento all’odio religioso e fu costretto a dimettersi prima di completare il mandato. Tornò in campo con le elezioni politiche del 2003, riscosse un grande successo e nel marzo dello stesso anno divenne presidente del Consiglio, poi nell’agosto del 2014 fu eletto Presidente della Repubblica turca.  


Recep Tayyip Erdoğan

“Sembrava diventato un altro uomo – chiosa Sergio Romano su il Corriere. It del 19 ottobre 2019 – . Sapevamo che detestava la casta militare del Paese (tradizionale custode della laicità kemalista) e che non avrebbe esitato a sbarazzarsene non appena gli fosse stato possibile. Ma non potevamo ignorare che era stato liberamente scelto dai suoi connazionali e che sembrava deciso a modernizzare la Turchia per farne,  nel nuovo clima politico creato dal crollo dell’Urss e dalla fine della Guerra Fredda, un rispettato membro dell’Unione Europea. Per raggiungere questo scopo  era aiutato da un eccellente ministro deli Esteri, Ahmet Davutogiu, deciso a instaurare  nuovi rapporti con tutti i Paesi della regione. Oggi il quadro è cambiato: Erdogan continua a governare il Paese, ma con uno stile che è diventato sempre più dittatoriale e vendicativo. E’ sempre il leader del partito, ma il suo principale avversario è un imam, Fatullah Gulen, che vive negli Stati Uniti, ha un largo seguito in Turchia e sarebbe responsabile, secondo Erdogan, del colpo di Stato che ha cercato di detronizzarlo nel luglio del 2016. Non possiamo escluderlo, ma Erdogan ne ha approfittato per scatenare una gigantesca epurazione. Credo che  le ragioni di questo mutamento siano almeno due. In primo luogo la maggioranza dell’opinione pubblica europea ha chiuso alla Turchia la strada che le avrebbe permesso di entrare nell’Ue. Evidentemente siamo pronti a pagare perché  la Turchia trattenga i migranti sul suo territorio, ma non intendiamo spingerci fini a farne un membro della famiglia. E poi le guerre americane e le rivolte arabe in una regione che fu per molto tempo ottomana, hanno reso il Medio Oriente instabile e la Turchia più nazionalista. Non è più quella in cui avevamo riposto fiducia e speranza”.


Fatullah Gulen

Ho citato quasi per intero questo articolo di Sergio Romano perché è un esempio di quella obiettività che dovrebbe essere la regola dei notisti politici e di chiunque possa influenzare tramite i media l’opinione pubblica. Se poi gettiamo uno sguardo sulle conseguenze possibili di questa guerra asimmetrica scatenata dalla Turchia contro la minoranza curda, scorgiamo rischi tutt’altro che teorici di una ripresa del terrorismo  dato l’alto numero di prigionieri dell’Isis presenti nelle carceri curde e che potrebbero fuggire in massa; inoltre c’è un rischio incombente di un ritorno  del Califfato visto che la scelta di Erdogan è stata quella di attaccare i curdi e non gli estremisti islamici che occupavano prima quel territorio, sappiamo perché tanto conteso. Oltre a tutto questo si profila nuovamente un’emergenza umanitaria nella già fin troppo  martoriata Siria. Altro fatto inoppugnabile è il totale disimpegno dell’Europa riguardo alla tragedia di un popolo senza terra e da sempre perseguitato, soprattutto dai turchi e dagli iracheni; questo disimpegno si configura agli occhi del filosofo Massimo Cacciari come un vero e proprio tradimento: “Il popolo curdo aveva creduto in noi. Avevamo invocato il suo aiuto e il suo sacrificio. Il terrorismo del sedicente Stato islamico colpiva l’Europa con effetti più dirompenti e destabilizzanti che in qualsiasi altro Paese, i suoi attentati assumevano da noi un significato anche simbolico quasi pari a quello delle Torri di New York, la guerra che provocava dall’Iraq alla Siria minacciava di rendere i flussi migratori una marea irrefrenabile. I curdi sono scesi in lotta anche per noi” (su L’Espresso del 20 /11/ 2019). Che dire? Troppi interessi commerciali e strategici ci inducono a non  metterci in urto con l’autocrate turco? La decisione di accendere un nuovo focolaio di guerra nell’area mediorientale senza motivazioni che non siano meramente espansionistiche ed economiche come può essere giustificata? Eppure c’è chi giustifica la politica aggressiva di Erdogan con l’argomento della difesa preventiva e dell’insostenibilità dei troppi rifugiati nel territorio turco. Per carità, ognuno è libero di pensare quello che vuole, ma prima non sarebbe male documentarsi. Quanto alle  colpe degli uni e degli altri sappiamo fin dai tempi del diluvio universale che i giusti sono pochi, ma saranno quei pochi a salvare il mondo (se prima non finirà in una catastrofe cosmica).

  FULVIO SGUERSO 

 

 

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